Adam de la Halle & Companions: a proposito di un libro recente

Par Federico Saviotti
Publication en ligne le 12 avril 2024

Résumé

This paper contains an analytic review of the recently issued Musical Culture in the World of Adam de la Halle, edited by Jennifer Saltzstein (Leiden-Boston, Brill, 2019). A thorough assessment of old and new hypotheses about Adam de la Halle, his musical and poetic works and his cultural context leads to reaffirm the need of a consequent and actually multidisciplinary approach – so far only rarely applied – to a complex object, of the utmost interest for both Musicology and Philology.

Nel contributo si recensisce analiticamente il volume di recente pubblicazione Musical Culture in the World of Adam de la Halle, a cura di Jennifer Saltzstein (Leiden-Boston, Brill, 2019). La discussione approfondita di ipotesi vecchie e nuove su Adam de la Halle, la sua opera poetico-musicale e il suo contesto culturale è l’occasione per ribadire la necessità di un approccio realmente multidisciplinare e coerente, fin qui solo di rado perseguito, a un oggetto complesso e del massimo interesse tanto per la filologia quanto per la musicologia.

Mots-Clés

Article au format PDF

Adam de la Halle & Companions: a proposito di un libro recente (version PDF) (application/pdf – 341k)

Texte intégral

1Negli ultimi anni l’editoria scientifica – e non solo – anglosassone ha inondato il mercato di Companions: una rapida ricerca limitata al catalogo OPAC delle biblioteche italiane restituisce ad esempio, tra i soli volumi usciti dal 2000 in poi, 124 Oxford Companions (con argomenti che vanno da Scottish History a Wines of Northern America) e addirittura 810 Cambridge Companions (da Jesus a Metal Music) e 854 A Companion to … pubblicati da editori diversi (incentrati, tra le altre cose, su Lucca, Braunwald’s Heart Disease e Applied Ethics)1. Ma che cos’è precisamente un Companion? Secondo il Cambridge Dictionary, il termine si trova «used in the title of a type of book that gives you information on a particular subject or tells you how to do something»2; fra le traduzioni italiane riportate dai dizionari si trovano ‘manuale’, ‘guida’, ‘prontuario’, ‘vademecum’, che rimandano a oggetti forse non del tutto sovrapponibili tra loro ma che hanno in comune la funzione di fornire a chi legge una raccolta di informazioni più o meno esaurienti su un determinato argomento. Restringendo il campo ai Companions che interessano latamente l’ambito della filologia romanza – quello di mia competenza – si può provare a definire meglio questo vero e proprio genere della bibliografia secondaria, sviluppatosi alla fine del Novecento ma trionfante nel primo quarto del XXI secolo. Il Companion è un’opera miscellanea su un tema unitario in cui diversi autori sono responsabili in genere di un solo capitolo, o di pochi capitoli, ciascuno; si differenzia in ciò dal manuale o dalla monografia tendenzialmente monoautoriali o prodotti da un ridotto gruppo di critici in cui a ogni autore sono solitamente demandate più sezioni. Malgrado l’intenzione di trattare in maniera globale, al contempo circoscritta ed esaustiva, il tema prescelto lo accomuni senza dubbio al manuale, occorre riconoscere che il Companion si distingue da quest’ultimo anche per un’impostazione e una scelta dei contenuti che non si può descrivere come meramente manualistica. Per quanto la struttura dell’opera possa infatti talvolta (ma non sempre) avvicinarsi a quella, schematica ed essenziale, del manuale (con, poniamo, un capitolo per ogni opera di un autore a cui il volume sia in toto dedicato), da una parte l’approccio complessivo è di preferenza multidisciplinare, con l’ambizione di affrontare il tema da punti di osservazione differenti e ponendo in luce aspetti diversi (dello stesso autore, dello stesso testo, dello stesso manoscritto, etc.). Così, si può dire che se nel manuale la completezza della trattazione si costruisce attraverso i capitoli e prescindendo quasi dalla loro segmentazione, nel segno di una sintesi centripeta attorno ai nuclei di senso selezionati come fondamentali per la migliore comprensione del tema, nel Companion l’effetto di sintesi che pure può risultare da uno sguardo d’insieme al volume si ottiene dalla considerazione congiunta delle singole parti, le quali sono però concepite e dunque possono essere lette autonomamente. D’altra parte, anche a livello di ciascuna delle unità in cui l’opera è suddivisa, è piuttosto evidente la divergenza tra il capitolo di manuale, in cui si tende a compendiare il già noto in una sintesi – ancora una volta – più o meno obiettiva delle varie proposte critiche, e quello del Companion, dove la presentazione dello stato dell’arte, che pure non deve mancare, è funzionalizzata allo sviluppo di una prospettiva particolare e nuova. In effetti, la presenza di almeno un elemento di originalità, talvolta elevato a chiave di lettura generale o tesi portante, pare essere una condizione necessaria per i contributi scritti per un Companion (e un tratto piuttosto raro nei manuali), mentre rimane molto variabile la proporzione quantitativa tra lo spazio riservato alla riproposizione dei risultati degli studi precedenti e alle proposte innovative, così come tra il loro peso critico rispettivo nell’economia del saggio e della raccolta nel suo complesso. Se questi tratti empiricamente ricavati da uno sguardo anche limitato a un segmento del corpus possono servire per inquadrare il Companion distinguendolo per struttura, forma e contenuti da altri generi bibliografici parzialmente affini, pare più difficile stabilire a chi si rivolga una pubblicazione di questo tipo, al contempo compendiosa e analitica, compilativa e originale: studenti universitari (come i manuali) già dotati di competenze di base? Specialisti? Pubblico colto e curioso (ma esiste ancora)?

2La risposta a questa domanda, che ne porta con sé altre, complementari, sulla ricezione dei Companions e in particolare sull’orizzonte d’attesa di lettori e lettrici, esula com’è ovvio dal limitato scopo di questo contributo: quello di proporre all’attenzione del pubblico di Textus&Musica un libro, Musical Culture in the World of Adam de la Halle (d’ora innanzi MCWAH), recentemente apparso nella collana «Brill’s Companion to the Musical Culture in Medieval and Early Modern Europe»3. Tuttavia, ritengo che tale scopo e l’apprezzamento più corretto dell’opera in questione, dalla sua concezione alla sua realizzazione fino alla sua fruizione da parte del pubblico, non possano prescindere dalla considerazione del suo rapporto con il genere bibliografico cui appartiene, quello dei Companions appunto, e delle caratteristiche che ne derivano, tra cui la problematica questione dei destinatari. Pertanto, non parrà strano iniziare proprio dagli aspetti ricezionali. Prima di tutto, MCWAH non è evidentemente destinato a studenti universitari, anche già dotati di competenze pregresse, né a un pubblico genericamente colto: portano a escluderlo l’approccio specialistico e un registro che si serve di tutti i tecnicismi opportuni, così come la mole di conoscenze che vengono date per scontate. Si tratta, dunque, benché non venga detto espressamente, di una pubblicazione scientifica indirizzata agli studiosi. A giudicare, però, dalle citazioni e dalle recensioni si può affermare che, a qualche anno ormai dalla pubblicazione, questa miscellanea di studi incentrati sulla straordinaria figura di poeta e compositore che fu Adam de la Halle, la sua eterogenea produzione letteraria e musicale e il suo contesto storico-culturale, abbia raggiunto e/o interessato in maniera molto limitata la comunità scientifica, e in particolare soltanto il settore della musicologia medievale anglosassone4. Ciò è senz’altro in linea con l’indirizzo della collana e del genere di appartenenza; va però notato che tra gli autori figurano pure specialisti di letteratura e arte medievale e che, anche tra i saggi firmati da musicologi, l’approccio musicologico e l’argomento musicale sono lungi dall’essere sempre preponderanti (come si dirà nel dettaglio più avanti). In questo senso, il titolo stesso dell’opera, evidentemente vincolato all’inserimento del volume nella collana, non rende giustizia alla ricchezza e alla varietà degli argomenti affrontati e dei punti di vista presentati, spostando peraltro il focus per potenziali lettrici e lettori dalla figura di Adam, protagonista incontrastato di tutti o quasi i capitoli, al suo ‘mondo’ e alla ‘cultura musicale’ che vi fioriva. Temi ben presenti, questi, ma in genere strettamente funzionali alla trattazione su Adam: tra la dichiarazione di intenti inserita da Jennifer Saltzstein nel capitolo che funge da introduzione («this book aims to illuminate how song traditions initiated by aristocratic trouvères were altered by their cultivation within a cosmopolitan, urban center among a rising clerical class», p. 13) e quella che si trova in chiusura dell’ultimo contributo di cui è responsabile la stessa curatrice –

Adam not only demonstrates his mastery of existing genres through his innovations, he asks that his readers gain mastery of his works, so many of which reward contextualization across his full corpus. The chapters in this book, which span the genres and disciplines of Adam’s output, are intended to help modern readers to realize just this aim (p. 363).

3– la seconda è indubbiamente quella che meglio fotografa MCWAH.

4L’intitolazione non del tutto congrua del volume spiega almeno in parte la sua mancata ricezione negli ambienti dei filologi e degli storici della letteratura, in particolare italiani e francesi: l’intento di avvicinare tali studiosi, tradizionalmente tra i più interessati a Adam de la Halle e alla produzione letteraria circostante, a una pubblicazione che presenta indubbi motivi di interesse e nuove proposte meritevoli di discussione è la prima ragion d’essere di questo contributo. Un altro ostacolo alla diffusione e al successo di MCWAH credo vada ricercato nel suo genere stesso: ho l’impressione che, al di fuori del mondo anglosassone, pesi sui Companions una sorta di pregiudizio da parte degli specialisti, che tenderebbero a sottostimare la componente originale rispetto a quella puramente compilativa, considerandoli insomma alla stregua di manuali: da qui l’esigenza, in questa sede, di definire preliminarmente che cosa sia o possa essere un Companion e la sottolineatura, pure preliminare, della presenza di significativi elementi di novità nell’opera.

Questioni di struttura, metodo e forma

5Prima di affrontare singolarmente i contenuti dei tredici contributi (dodici capitoli numerati a seguire l’introduzione), è il caso di soffermarsi sul volume nel suo complesso. La struttura globale dell’opera non risulta a un primo sguardo particolarmente perspicua. Ad esempio, malgrado la giustificazione che ne viene data a p. 13, la macro-suddivisione tematica in quattro parti – «The Northern Milieu», «Material Contexts of Arrageois Songs», «Genres in Context», «Traditions and Transformations» – separa in maniera discutibile (tra le parti 3 e 4) la successione dei capitoli dedicati ai singoli generi praticati da Adam; inoltre, il capitolo 8, specificamente dedicato alla questione della clergie di Adam, fondamentale per l’interpretazione dell’intera opera dell’autore, avrebbe forse trovato una migliore collocazione nella prima parte («designed to provide a thick description of the rich northern French context within which Adam operated, grounding him in the institutional structures of his native Arras», p. 13), piuttosto che nella terza. Ancora, nella seconda sezione, incentrata sulla materialità della tradizione manoscritta, la presenza di Adam de la Halle è piuttosto marginale (e ancor più lo è quella della «musical culture»): l’impressione è che gli autori di questi 3 capitoli, che sono comunque tra i più stimolanti del volume, abbiano funzionalizzato al tema i prodotti delle loro personali ricerche (rispettivamente quelle di Alison Stones sulle miniature dei «gothic manuscripts»5, di John Haines sullo Chansonnier du Roi6 e di Judith Peraino sullo Chansonnier de Noailles7), integrandovi una prospettiva riguardante Adam, di consistenza e pertinenza diseguali. Le ripetizioni e le ridondanze (ad es. le informazioni relative alla storia socio-politica e culturale di Arras oppure al manoscritto W [Paris, BnF, fr. 25566], riportate in diversi capitoli) così come punti di vista contrastanti (ad es. sull’esistenza o meno del Puy d’Arras oppure sul significato del titolo «maistre» attribuito a Adam) che emergono da una lettura continua di MCWAH sono invece in qualche misura connaturati al genere Companion per come lo si è descritto, malgrado gli apprezzabili sforzi della curatrice per conferire con i propri interventi d’apertura e di chiusura una certa coerenza all’insieme, e vanno dunque considerati almeno in parte inevitabili.

6Dal punto di vista metodologico, pare accomunare quasi tutti gli autori – il solo Haines esprime un atteggiamento diverso e polemico, come si dirà – un approccio che, pur rifuggendo le prese di posizione teoriche, si rifà palesemente ai principî della New Philology, predominante negli ambienti della medievistica nordamericana. Sono infatti evidenti nella maggior parte dei capitoli l’attenzione agli aspetti materiali e culturali delle singole testimonianze manoscritte (tale l’approccio della voce dedicata da Elizabeth Aubrey ai canzonieri per il Grove Music Dictionary8, a cui non a caso gli autori talora rimandano per le informazioni di base sui singoli canzonieri) e un parallelo disinteresse per la storia della tradizione e l’ecdotica; è, in particolare, pressoché assente il discorso filologico relativo ai rapporti genealogici tra i testimoni e le loro fonti e alla ricostruzione testuale.

7Per quanto riguarda la forma, il layout del libro è nel complesso elegante, ma la mise en page risulta qua e là poco reader-friendly: in particolare nelle tabelle, dove è a volte faticoso distinguere tra le diverse righe in assenza di linee di separazione, e soprattutto nelle citazioni dei testi poetici, con versi spesso spezzati tra due righe consecutive che ostacolano la comprensione della forma dei componimenti. Una rilettura più attenta delle bozze, infine, avrebbe evitato i refusi e le incoerenze che, interessando talvolta i nomi propri, risultano fuorvianti per chi legge: cito ad es. il caso di Nevelot Amion, menzionato dapprima come «Nevelot Aimon» (p. 6, n. 27) poi per tre volte come «Nevelon Amion»9 (senza riscontro possibile nell’indice dei nomi, dove questo non compare).

8La ricchezza degli apparati, che paiono avere la duplice funzione di soddisfare le esigenze di una lettura mirata e di conferire unitarietà a un volume di per sé eterogeneo, è sicuramente un punto di forza di MCWAH. I primi tre dei quattro Annexes a cura di Anne Ibos-Augé – che, come dimostrano gli Acknowledgments di p. VII, può essere considerata una sorta di aiuto-curatrice almeno per quanto concerne la dimensione musicale – contengono utili tavole di raffronto rispettivamente dei refrains utilizzati da Adam de la Halle in rondeaux e canzoni (Annex I) e nei mottetti (Annex II)10 e delle inserzioni (meglio che ‘citazioni’, dal momento che non sempre è possibile stabilirne la provenienza e l’eventuale statuto intertestuale) liriche nelle pièces teatrali (Annex III). L’ultimo (Annex IV) raccoglie invece tre trascrizioni musicali relative a due diverse composizioni adamiane discusse tra le altre dalla studiosa nel capitolo 9, dove avrebbero forse meglio figurato, data la loro specificità. Il capitolo introduttivo è preceduto dalle liste delle figure, delle tavole e degli esempi musicali, da una serie di brevi sintesi biobibliografiche relative ai dodici autori e da «A Note on Manuscript Sigla», dove si propone – pur con qualche incongruenza – un identificativo univoco per ogni testimone, a partire dai due principali sistemi di riferimento invalsi rispettivamente nella tradizione critica musicologica (secondo Friedrich Gennrich) e filologica (secondo Raynaud-Spanke).

9Posizionata prima dei tre indici (delle persone, di opere e manoscritti e degli argomenti trattati), la bibliografia complessiva, non distinta in primaria e secondaria e con alcuni lapsus (come l’opera di Robert le Clerc d’Arras catalogata alla voce «Clerc, Robert le») raccoglie i riferimenti presenti nelle note dei singoli capitoli: per quanto abbondante, può essere considerata esaustiva solo in un’ottica settoriale, che contrasta però con l’impostazione multidisciplinare del volume. Se, infatti, il panorama della critica musicologica anglosassone e francese e, fino a un certo punto, quello degli studi in lingua francese anche sul versante testuale sono adeguatamente coperti, è invece quasi del tutto ignorata la bibliografia filologica italiana, la cui importanza nell’analisi e l’interpretazione della tradizione manoscritta della lirica galloromanza medievale e della stessa opera adamiana può essere difficilmente sottostimata. Si trovano bensì rari riferimenti a singoli contributi di studiosi italiani ma la selezione tende a privilegiare alcune pubblicazioni a discapito di altre, spesso più importanti o aggiornate (è il caso di Gioia Zaganelli, della quale si cita un articolo ma non la fondamentale monografia11). Dispiace dover sottolineare tale limite di MCWAH, nella convinzione che il confronto interdisciplinare e fra tradizioni di studi diverse sia fondamentale per illuminare proficuamente l’oggetto storico complesso rappresentato dai corpora cantati medievali. Dei casi in cui la conoscenza degli studi di parte filologica su Adam de la Halle, i trovieri e la loro tradizione manoscritta avrebbe evitato lacune, imprecisioni o travisamenti si darà conto affrontando nel dettaglio i singoli capitoli.

L’introduzione

10La prima parte dell’Introduction di J. Saltzstein si concentra sulla biografia e sulla produzione complessiva di Adam de la Halle, presentato «as the most prolific and important artistic voice of thirteenth-century France» (p. 1), il cui ruolo «as a composer of both monophony and polyphony seems to have distinguished him from his compositional peers» (p. 4). In realtà, la stessa duplice propensione avrebbe mostrato già nella prima metà del secolo Robert de Reims, autore di canzoni e mottetti secondo la recente proposta di Gaël Saint-Cricq12, ma la rilevanza della produzione dei due autori non è senz’altro paragonabile, né in termini quantitativi né per varietà e originalità; peraltro, non pare di poter supporre un’influenza di qualche tipo del più anziano sul più giovane. Saltzstein aderisce a una consolidata tradizione critica nell’accostare, piuttosto, Adam al concittadino e poligrafo Jehan Bodel, come lui autore, intorno al 1200, di componimenti lirici, una pièce teatrale, una chanson de geste e un Congé: la questione del modello rappresentato da Bodel è ripresa in più di un capitolo del volume come una chiave di lettura privilegiata della poetica adamiana, profondamente legata, come quella dell’illustre predecessore, al rapporto con la nativa Arras. In questo senso è affascinante, per quanto non verificabile, l’ipotesi – avanzata da Mark Everist13 ma fin qui rimasta ai margini del dibattito critico (non la discute ad esempio Stones nel proprio capitolo in MCWAH, per cui cfr. infra) – che possa essere proprio Jehan Bodel la figura che compare accanto al troviero nella miniatura che accompagna l’inizio delle canzoni adamiane in W. Meno scontato – in un volume che non si occupa se non tangenzialmente dei generi incasellabili sotto l’etichetta di «littera sine musica» come quelli che adottano la strofa di Hélinand – ma altrettanto appropriato, indicare tra i modelli di Adam proprio quell’Hélinand de Froidmont, che come lui era stato, quasi un secolo prima, chierico e autore di versi in volgare francese. Aggiungiamo che il monaco cistercense fu, a quanto pare, anche troviero, per quanto la sua opera lirica sia per noi perduta. La panoramica che viene proposta sulla produzione di Adam, con relativi problemi di attribuzione, si fonda – com’è consuetudine critica – sulla presentazione che ne dà W, contenente la sua opera omnia o quasi: Saltzstein problematizza la questione, ricordando che non tutto ciò che è contenuto nella prima sezione del codice è di Adam (non lo è dichiaratamente il Jeu du Pelerin, ma secondo alcuni – senza argomenti conclusivi, va detto – non lo sarebbero nemmeno la composizione latina Adest dies hec tercia né i Vers de la Mort) e, d’altra parte, alcuni componimenti del troviero (due canzoni, due jeux-partis e un rondeau) si trovano solo in altri testimoni. Non è nemmeno chiaro a chi risalga la responsabilità di questa raccolta, che si distingue da ogni precedente silloge monoautoriale galloromanza per la varietà di generi rappresentati: in tal senso, è difficile considerare come un possibile prototipo il Liederbuch di Thibaut de Champagne, oggetto di una menzione cursoria (n. 17, p. 5), e le altre raccolte d’autore esclusivamente liriche citate in altri capitoli del volume. L’interpretazione generale della struttura del codice viene ad ogni modo ripresa da quella, ben nota e largamente accettata, di Sylvia Huot14, integrata con alcune interessanti proposte di Carol Symes, quali ad esempio che «the luxurious copy of Adam’s complete works in fr. 25566 may even have been sponsored by Robert II of Artois to memorialize Adam after his loyal service in Italy» (p. 10, ma si veda infra). Venendo alle notizie sulla vita di Adam, l’affermazione incipitaria «it is not an exaggeration to say that we know practically nothing about the composer, dramatist, and poet, Adam de la Halle» è condivisibile soltanto in relazione ad altri autori assai ben documentati come Guillaume de Machaut e, soprattutto, se si decide di prendere in considerazione solo i documenti storicamente intesi. Tuttavia, coordinate biografiche nebulose sono la norma per quanto riguarda i protagonisti, anche di primissimo piano, della letteratura medievale: si pensi a Chrétien de Troyes, anch’egli chierico e poeta nell’ultimo terzo del XII secolo, del quale davvero nulla si sa, se non quanto dice di sé nelle proprie opere. Lo stesso accade per Adam, ma, soprattutto, parlano di lui l’anonimo Jeu du Pelerin, concepito come introduzione al Jeu de Robin et Marion, e il copista Jehan Madot, che si presenta nel colophon di una trascrizione del Roman de Troie come il nipote di Adam. È evidente che le informazioni ricavate da queste fonti tra loro eterogenee non possono essere prese tout court come fededegne, ma a partire da esse e incrociando i dati la critica ha ormai da tempo consolidato un nucleo di elementi che permettono di ricostruire in modo quantomeno verosimile diverse circostanze della vita del poeta, espungendo quelle da ritenersi improbabili. Tra queste ultime, ad esempio, la presenza di Adam alla corte di Edoardo II d’Inghilterra nel 1306 (un «Maistre Adam le Boschu» è menzionato in una carta dell’epoca), in contraddizione con la duplice e indipendente notizia (riportata da Madot e dal Pelerin) relativa alla sua morte avvenuta lontano da Arras verso la fine degli anni ‘80 del Duecento15. Benché, dunque, la biografia adamiana sia lungi dall’essere oggi per noi completamente oscura, come implicitamente suggerisce la stessa rassegna di «a few details of Adam’s life that find support in surviving historical documents» (p. 9), molte lacune permangono (come quella relativa alla data della sua nascita) e alcune notizie divenute luoghi comuni della critica restano inverificabili. Appartiene a questa categoria il preteso soggiorno parigino come studente universitario, ragionevolmente discusso dall’autrice, che esclude in particolare che l’appellativo «maistre» che viene spesso riservato a Adam implichi di necessità l’ottenimento della licentia docendi, secondo l’idea espressa da Pierre-Yves Badel, e recepita da altri nel volume (su tutti Symes e Alain Corbellari). Sulla base dell’abbondante numero di trovieri che si fregiano del titolo di maistre, si può pensare, con Saltzstein, a un uso assai più ampio e generico («it seems that the term was used in the vernacular to recognize learning» [p. 8]): in effetti, sono in genere i chierici a essere chiamati maistre, indipendentemente dalla loro formazione e posizione. Al contrario, pare contestabile la presa di posizione (che è in primis di Symes) contro l’esistenza del Puy d’Arras, il quale sarebbe, nell’intenzione di Adam che lo cita nel Jeu de la Feuillée, un luogo ideale, non reale, di corrispondenza poetica, e che la critica neoromantica avrebbe esaltato come istituzione aristocratica e cortese in opposizione all’ambiente borghese della Confrérie des bourgeois et des jongleurs. Andrà ricordato che il Puy non compare solo nella Feuillée, ma anche in jeux-partis di autori diversi: anche in assenza di una documentazione storica, la specifica menzione all’interno di uno scambio poetico tra individui reali porta a presumere che un tale circolo – poco importa se con una sede fisica e strutture organizzative stabili o meno – esistesse davvero; l’onere della prova, in tal senso, sta evidentemente a chi volesse sostenere il contrario (nel volume, Daniel O’Sullivan si mostra convinto dell’esistenza del Puy, mentre non trae conclusioni in merito Peraino). La seconda parte dell’introduzione ripercorre rapidamente, nell’ottica parziale già descritta, la storia moderna delle ricerche su Adam e si conclude con una sintetica panoramica su MCWAH e sui suoi contenuti, anticipando il senso e la rilevanza dei singoli capitoli nel progetto complessivo. La solidità del discorso critico è indebolita da alcune imprecisioni che suggeriscono una conoscenza solo mediata di alcuni settori della letteratura medievale: tra queste, ad esempio, la menzione di fabliau e congé come generi lirici (p. 1) o del manoscritto sottoscritto da Jehan Madot (codice miscellaneo contenente romanzi e altre opere non liriche in versi e prosa) come di uno «chansonnier» (p. 10). È il caso, infine, di puntualizzare che i mss. a (Città del Vaticano, BAV, Reg. lat. 1490) e Paris, BnF, fr. 837 non contengono a rigore «shorter versions» (p. 7) del Jeu de la Feuillée, ma solo la prima parte (o prologo) della pièce. Peraltro, il senso della sua circolazione autonoma ed “extravagante” rispetto all’opera a cui appartiene non è ancora stato adeguatamente investigato: data la ridottissima divergenza della varia lectio, non convince a tal proposito la lettura avanzata da Symes – e ribadita anche in questo caso da Saltzstein – dei testi scorciati «as adaptations of the original play adjusted to serve the needs of jongleurs and to suit changing historical and geographical contexts for their performances».

«The “School of Arras” and the Career of Adam»

11Nel capitolo 1, Carol Symes cerca di ricostruire la carriera poetico-musicale di Adam de la Halle a partire da W e da quello che si conosce dell’ambiente arrageois, giudicando incerte le informazioni ricavabili dai suoi testi. Inevitabilmente, non pochi degli argomenti si trovano anticipati nell’introduzione, il cui debito nei confronti di questo capitolo e dei precedenti scritti della stessa studiosa è cospicuo, come già rilevato. Mi limiterò a esporre alcune tra le altre ipotesi avanzate, talvolta sprovviste di pezze d’appoggio sufficienti ma nel complesso interessanti e meritevoli di discussione, tanto più che il contesto storico è ricostruito dalla studiosa in maniera precisa e dettagliata, sia per Arras che per l’Italia meridionale del secondo Duecento. In primis, il rapporto di ideale discepolato tra Adam e Jehan Bodel sarebbe stato celebrato a vari livelli dal compilatore di W, con l’inserimento nella silloge del Jeu de Saint Nicolas, unicum di W, subito dopo l’opera adamiana. Il compilatore avrebbe interpretato il personaggio del Prudhomme del Jeu come una figura di Adam (p. 26), il quale, come l’argomento dell’opera bodelliana, avrebbe avuto legami con il Meridione d’Italia (le reliquie di San Nicola erano giunte dall’Oriente a Bari). È meno convincente, e in fondo irrilevante rispetto alla tesi generale incentrata sul senso della compilazione di W, l’idea solo suggerita di un particolare rapporto di Adam con il JeuDid Adam have a copy of the script with him? Or did he know it by heart, from having performed it often?», p. 27); si arriva persino a ventilare, ma senza indizi, che la trascrizione dell’Ur-W possa costituire «Adam’s memorial reconstruction of a text he did not possess». Adam – argomenta Symes – potrebbe aver conosciuto il Saint Nicolas e addirittura partecipato alla sua messa in scena alla scuola cattedrale di Arras, dove si sarebbe formato: solo tale scuola, infatti, dava l’accesso agli studi universitari, che si dà per scontato Adam abbia compiuto sulla base di quell’appellativo «maistre» che «suggests a university education» (p. 41). Le ipotesi vengono così costruite le une sulle altre, a partire da un solo indizio la cui consistenza è – come detto – tutt’altro che provata. Quanto all’affermazione che «Jehan’s play was an integral part of the copying campaign that preserved Adam’s work» (p. 22, n. 3), per la quale la studiosa rimanda a quanto da lei già scritto altrove, è senz’altro vero, ma la stessa considerazione si può estendere anche alle opere che seguono, copiate dalla stessa mano (fino a c. 166) senza soluzione di continuità: inoltre, pare più interessante sottolineare come Bodel apra (con il Jeu) e chiuda (con il Congé, in posizione finale) la sezione non adamiana della raccolta, piuttosto che tentare di legare in maniera esclusiva il Saint Nicolas alla sezione adamiana16. Per concludere su Bodel, l’affermazione che «Jehan had been unusual among the jongleurs of his era in having the technical capacity to record his songs in writing» (p. 27) suona come una pura illazione, peraltro in contrasto con quanto si sa della cultura dei giullari del XII secolo. È invece suggestiva la lettura del corpus adamiano celebrato ad Arras grazie a W in sostituzione simbolica del corpo dell’autore, sepolto in Italia. Quanto alla committenza del manoscritto, l’autrice esita tra Roberto II d’Angiò, mecenate di Adam nei suoi ultimi anni, e il conte di Fiandra Gui de Dampierre. A favore di quest’ultima ipotesi – avanzata per la prima volta da Henri Roussel e rilanciata in questo volume da Stones, ma che rimane sub iudice in assenza di prove decisive – si può invocare la presenza degli stemmi dei conti di Fiandra in due delle illustrazioni a tutta pagina che corredano il codice (per cui si veda infra). Rispetto al ruolo di primo piano di Roberto d’Angiò nella committenza di opere (se non di manoscritti) di Adam de la Halle che il Jeu du Pelerin gli riconosce e che la critica non ha mai ritenuto di dovergli negare, paiono, invece, piuttosto contraddittorie l’interpretazione del cavaliere del Jeu de Robin et Marion come una rappresentazione burlesca dello stesso conte e l’individuazione nella pièce di un riferimento alla traumatica (per i francesi) esperienza dei Vespri siciliani17: per quanto amante della poesia del troviero, si può ritenere che Roberto non avrebbe accolto con favore un simile sconfinamento nella satira personale e politica. Per quanto riguarda, poi, il problema di situare la nascita di Adam, Symes propone una data intorno al 1250, basata sul solo riferimento del Pelerin alla precocità della sua morte. Tuttavia, tale datazione va forse anticipata di qualche anno, se si tiene conto dei numerosi jeux-partis scambiati con Jehan Bretel – tra le pochissime opere adamiane databili, dal momento che il Prinche du Puy (titolo che supporta, ancora, l’esistenza del Puy d’Arras) muore nel 1272 – in cui l’esimio interlocutore riconosce a Adam un’autorevolezza nelle cose d’amore che non pare poter essere appannaggio di un uomo troppo giovane. Tra i limiti di questo capitolo si segnalano le traduzioni piuttosto disinvolte dei testi medievali, come quelle di alcuni versi di un dit artésien (p. 21) o della famosa tirata contro Arras del Congé (p. 25), dove la resa inglese in rima si allontana dalla lettera del testo finendo per risultare semanticamente fuorviante. Ancora, la traduzione della rubrica «Li dis Adan» che accompagna in W l’incipit del Jeu de la Feuillée come «the Adam speech» (p. 24) con riferimento alla battuta del protagonista su cui si apre la pièce, priva chi legge di un’informazione importante in merito al significato metaletterario del termine dit18. Si rileva, infine, qualche incoerenza nella citazione del testo a partire dai manoscritti, talvolta in trascrizione tendenzialmente diplomatica (ma con soluzioni ibride come l’inserimento della maiuscola: più di una volta «dArras»), talvolta più di tipo semi-diplomatico (con maiuscole, apostrofi e divisione delle parole, sporadicamente anche interpunzione introdotti secondo l’uso moderno), senza indicazioni specifiche. Edizioni precedenti si trovano citate in nota, ma non viene detto se e in che misura ne sia riprodotto il testo.

«The Poets of the North: Economies of Literature and Love»

12Più rigoroso dal punto di vista del corredo filologico, il capitolo 2, firmato da Eliza Zingesser, si concentra su come il ruolo centrale del denaro e degli scambi commerciali e finanziari nella società arrageoise del XIII secolo abbia influenzato la rappresentazione del rapporto amoroso nella lirica dei trovieri cittadini dell’epoca. «Even love service», sostiene la studiosa, «is understood as a kind of economic transaction, a transaction in which both the lover and the beloved are at risk of becoming usurers» (p. 53). La lettura sotto questa lente delle canzoni di Adam de la Halle, in particolare, mostrerebbe come il troviero intenda i propri componimenti non solo come luogo ideale per negoziare l’amorosa ‘transazione’, ma pure come una sorta di corresponsione del dovuto all’amata. In questo senso, la forma più virtuosa di pagamento si compirebbe nel corpo stesso dell’io-lirico, mediante la sofferenza psicosomatica data dal joli mal d’amore. Inoltre, l’alta densità di nomi propri che caratterizza la produzione dei trovieri urbani (vengono considerati indistintamente le zone liminari dei jeux-partis e l’insieme dei cosiddetti «chansons et dits artésiens» editi da Jeanroy e Berger, che meriterebbero invece di essere considerati separatamente per la differenza di genere e di modalità di trattamento dell’elemento onomastico), a testimonianza della concreta realtà di un contesto di fitte relazioni sociali, viene suggestivamente interpretata nel senso di una registrazione dei debitori in un libro di conti. Si spiegherebbe così l’insistenza sul problema del valore e della sua determinazione («the quantification of value or worth» nelle parole di Zingesser) che accomuna Adam ai trovieri suoi contemporanei. Così sintetizzata, la tesi esposta si rivela funzionale a gettare luce su un «blind spot in criticism» (p. 65, n. 37) riguardante la poesia dei trovieri borghesi di Arras, spesso svalutata nel suo complesso per i suoi riferimenti materiali e la scarsa propensione all’astrazione. Tuttavia, se non stupisce che laddove l’esperienza quotidiana degli autori è basata su scambi commerciali e accumulazione di denaro la lingua e l’espressione poetica ne risentano, sarebbe forse più interessante cercare una controprova: tutto ciò non si trova nella poesia di altri trovieri? Anche in merito al presunto masochismo di Adam – sempre che di masochismo si possa parlare nel caso di un amante cavalcato dall’amata (jeu-parti RS. 277, per cui si veda infra), dove a scandalizzare maggiormente è senza dubbio la honte (termine più volte impiegato da entrambi i partenaires) che a lui ne deriva – avrebbe giovato richiamare la lunga schiera di poeti d’oc e d’oil che si compiacciono, almeno da Jaufre Rudel (se non addirittura dal Guglielmo IX del vers del gatto rosso) in avanti, della sofferenza fisica oltre che di quella psicologica determinate dall’esperienza d’amore.

«Another Note on fr. 25566 and Its Illustrations»

13La sezione II si apre con il contributo di Stones, séguito – come denuncia il titolo stesso – dei precedenti lavori sulla decorazione di W della studiosa, che qui si concentra in particolare sulle tre illustrazioni a pagina intera. La loro presenza è piuttosto eccezionale in un codice di questo tipo: tra le centinaia di manoscritti volgari confezionati entro l’anno 1300 che Stones ha passato in rassegna, se ne trovano infatti solo una ventina di altri esemplari. A questi andrebbe aggiunto il Saibante-Hamilton (Berlin, Staatsbibliothek, Hamilton 390), testimone fondamentale della letteratura italiana settentrionale delle origini19, se il versante italoromanzo fosse tenuto in considerazione: in effetti, nel capitolo come nel volume, il termine «vernacular» è inteso tout court come ‘galloromanzo’. Riguardo agli aspetti materiali del manoscritto, si segnala che questo fu molto «used and abused» (p. 77), ad apparente testimonianza dell’interesse che il repertorio che tramanda doveva suscitare ben al di là del suo primo pubblico. Se il rimando a studi recentissimi sull’usura delle pergamene mediante analisi strumentale è di notevole interesse, occorre però essere cauti nell’attribuire per ciò stesso la frequentazione del codice soprattutto a lettori premoderni: il grande successo critico delle opere che contiene, da Adam de la Halle al Bestiaire d’Amour di Richart de Fournival, giustifica il sospetto che la maggior parte delle mani che hanno sfogliato W appartengano invece agli studiosi dell’Otto e Novecento, epoche in cui era (purtroppo) consentita una consultazione ben più libera e disinvolta dei manoscritti medievali. La datazione avanzata per la confezione del libro, intorno al 1300, essenzialmente su basi storico-artistiche, potrebbe essere precisata tenendo conto degli elementi forniti dai testi (il Dit du Vrai aniel presuppone la caduta di Acri, 1291) e della cattura di Gui de Dampierre conte di Fiandra (1297), le cui insegne – come già ricordato – compaiono due volte proprio nelle illustrazioni a tutta pagina, insieme a quelle dei signori di Hangest20. La presenza di queste in corrispondenza di Renart le Nouvel, Dit des Quatre Evangelistes e Dit du Cerf Amoureux – opere, soprattutto queste ultime due, di certo non tra le più importanti della silloge – e la loro assenza nella sezione adamiana, la cui decorazione è invece del tutto convenzionale, pone una serie di interrogativi. Potrebbero essere andate perdute altre pagine illustrate? L’ipotesi viene messa sul piatto ma mancano concreti indizi di ordine codicologico a supporto. Sembra più verosimile che, come proposto in conclusione del capitolo, un progetto di libro inizialmente concepito come unitario e incentrato su Adam de la Halle sia stato reinterpretato con l’aggiunta delle tre grandi illustrazioni, ad uso di un pubblico per il quale il troviero poteva non essere più il principale motivo di interesse. In questo senso, colpisce soprattutto l’enfasi che accompagna il poemetto sugli evangelisti, un breve testo in attestazione unica, rimasto inedito fino a pochi anni fa21. L’iconografia dei quattro, rappresentati unitariamente in una sola bestia, è del tutto inusuale; Stones ne ritrova un altro esempio solo in un manoscritto copiato per un convento alsaziano circa cento anni prima. Non potendosi ipotizzare un rapporto diretto tra i due libri, viene suggerita la possibilità di fonti comuni ignote. Per la committenza di W rimane il dubbio tra Hangest e Dampierre, tra le cui dinastie non si sa di matrimoni negli anni ‘90 del Duecento. Che l’aggiornamento del progetto sia avvenuto molto vicino cronologicamente alla confezione del codice e in contemporanea con il resto della decorazione si deduce dall’analisi stilistica delle miniature, per cui viene ribadito quanto già ipotizzato dalla studiosa negli interventi precedenti: uno stesso artista sarebbe responsabile delle illustrazioni a piena pagina e di molte di quelle che si trovano all’interno delle colonne del testo, sulla base di un’affinità nella resa degli elementi architettonici che fanno da cornice, mentre uno o due miniatori differenti avrebbero eseguito altre vignette, caratterizzate dalla presenza di fogliame, tipica dell’illustrazione artesiana dell’epoca. In appendice viene fornita, infine, un’utile descrizione sommaria di tutte le miniature contenute nel codice.

«Aristocratic Patronage and the Cosmopolitan Vernacular Songbook: The Chansonnier du Roi (M-trouv.) and the French Mediterranean»

14Il capitolo 4, firmato da John Haines, è probabilmente il più arduo da sintetizzare e commentare per l’eterogeneità e l’ampiezza degli argomenti trattati. Nella prima parte, l’autore fa i conti con l’impostazione dominante negli studi di ambiente anglosassone sulla tradizione manoscritta della lirica medievale, recuperando l’approccio genealogico-ricostruttivo di Gröber e Schwan in opposizione alle derive della cosiddetta New Philology (ma l’etichetta non è mai utilizzata), con la sua insistenza sul ruolo dell’oralità e della «variance». Tale più che opportuna presa di posizione22 avrebbe potuto giovarsi del supporto della bibliografia filologica prodotta, soprattutto in Italia, a partire dalla seconda metà del XX secolo, che è invece del tutto assente: viene menzionato il solo François Zufferey per il versante occitano, mentre sono ignorati tanto l’opera fondamentale di d’Arco Silvio Avalle23, che di Gröber recupera e sviluppa l'impostazione, quanto gli studi più recenti sui canzonieri francesi24, fino alla sorprendente affermazione che

since then [l’epoca di Gröber e Schwan], hardly anyone has dared to pursue the daunting task of studying the transmission of these sources as a whole based on a thorough inspection and comparison of their contents (p. 97).

15Questo preambolo latamente metodologico prosegue con alcune precisazioni sulle modalità di messa per iscritto delle canzoni, dalle tavolette cerate alla pergamena, come base per provare a rispondere alle domande che stanno al centro dell’interesse dello studioso, quali: «How did songs in Old French come to be written down in deluxe compendia, some of which still survive today?» (p. 95), «How far back before 1230 (ms. U) did the written transmission of vernacular songs go? What kind of transmission was it? Where mainly did it take place?» (p. 99). Domande che, tuttavia, difficilmente possono essere considerate come «vital to the world of Adam de la Halle and to his musical culture, to cite the title of the present volume». E in effetti, come già anticipato, Adam e la sua cultura musicale compaiono solo marginalmente, mentre ampio spazio viene dedicato alla ricerca di indizi sull’esistenza di sillogi liriche precedenti a quelle conservate. La serie di testimonianze collezionate, molte delle quali già note ma qui per la prima volta presentate e discusse unitariamente, è senz’altro di grande interesse; non tutte, però, possono essere considerate davvero pertinenti. Ad esempio, la citazione di Geffrei Gaimar che nell’Estoire des Engleis parla di un «livere grant» contenente una «chançon» con il primo verso notato (vv. 6485-6488) non è riferibile a un canzoniere, come suggerito da Haines. Il testo di Gaimar chiarisce infatti, nei versi immediatamente precedenti, che il libro contiene un’opera di argomento storiografico incentrata su Enrico I: a questa è conferita l’etichetta di ‘canzone’, il che, insieme alla notazione musicale circoscritta al verso incipitario, fa pensare a qualcosa di assai più vicino alla chanson de geste che a un componimento lirico25. Ma se pure si fosse trattato di una silloge lirica, sarebbe difficile dire quale aspetto dovesse avere ed è improbabile che assomigliasse ai canzonieri del XIII secolo, con i quali non c’è alcuna continuità. A questo proposito, l’idea che la pratica di raccogliere componimenti lirici in un «songbook» sia nata in area anglonormanna pare smentita proprio dalla modalità di registrazione di quei «dozen single pieces found in manuscripts from the turn of the twelfth to the thirteenth century» (p. 101) che vengono citati come prova: si tratta infatti essenzialmente di tracce liriche sparse, che configurano una modesta tradizione, peraltro eccentrica sotto vari aspetti (forma, contenuti, registro) rispetto a quella, di matrice trobadorica, che propriamente chiamiamo trovierica. Sempre secondo Haines, la prima metà del XIII secolo avrebbe visto non solo la circolazione ma pure la produzione di canzonieri francesi raggiungere l’Oriente latino, dove avrebbe trovato un terreno fertile dal punto di vista culturale (la presenza di un’aristocrazia appassionata della poesia lirica e con una sorta di gusto antiquario) e socio-economico (la disponibilità di sostanze e l’impiantarsi di scriptoria specializzati nella copia di testi letterari in volgare). Questa tesi, già avanzata in un precedente articolo, in cui si individuava nel principe di Morea Guillaume de Villehardouin il destinatario dello Chansonnier du Roi (M, Paris, BnF, fr. 844)26, è qui ripresa e corredata da una serie di testimonianze (tabella 4.1) che, come per le fonti anglonormanne poc’anzi citate, dovrebbero dimostrare l’esistenza in Oltremare di sillogi liriche. Anche in questo caso, pare di poter dire che gli accenni cursori e spesso non univocamente interpretabili da parte di alcuni autori (tra cui Filippo di Novara) e in alcuni documenti sono lungi dal costituire delle prove di reale solidità, in assenza delle quali nessun canzoniere trovierico paragonabile a quelli noti può essere considerato come presumibilmente confezionato o persino circolante negli stati franchi d’Oriente. Non lo fu verosimilmente M, per il quale Haines sostiene questa volta una genesi artesiana (ipotesi in precedenza solo ventilata) di cui molti elementi a partire dalla consistenza linguistica della scripta portano però a dubitare27. Al di là dell’origine, tuttora discussa, nessun indizio suggerisce che il codice sia mai stato in Oriente, mentre le aggiunte successive al repertorio originario depongono piuttosto a favore di un soggiorno a Napoli (come ormai ampiamente accettato dalla critica, sulla base degli studi di Stefano Asperti)28, prima del ritorno in Francia. Diverso, ma non più probante, il caso delle raccolte delle poesie composte Oltremare da Filippo di Novara, di cui non rimangono se non vaghe menzioni da parte dello stesso autore: in quanto segmento lirico minoritario all’interno della vasta ed eterogenea produzione di un noto poligrafo, pare improprio paragonare i perduti manoscritti che dovevano tramandarle ai canzonieri del XIII secolo giunti a noi ma anche accostarli ai Liederbücher di poeti come Thibaut o lo stesso Adam de la Halle, soprattutto nell’impossibilità di ricostruirne forma e struttura. Rimane, in positivo, la prova della circolazione per iscritto dei componimenti lirici nell’Oriente latino, ma nulla permette di dimostrare che vi si trovassero o addirittura vi si confezionassero veri e propri canzonieri; la stessa esistenza di atelier specializzati nella produzione di questo tipo molto specifico di codice appare come una petizione di principio. D’altronde – considerando il capitolo nel suo complesso – tutta questa lunga prima parte incentrata sull’affermazione della scritturalità nella trasmissione della lirica a monte dei canzonieri noti e sull’esame di due aree marginali della Francofonia (l’Inghilterra e l’Oriente) in cui si ritiene di aver trovato gli indizi di tale scritturalità che sarebbe forse più arduo recuperare per la Francia continentale, appare finalizzata proprio alla dimostrazione per analogia che anche nella Madrepatria le cose dovessero funzionare nello stesso modo e per collocare Adam in questa tradizione come «last Old French songwriter» (così fin dalle prime righe, p. 95). Ma, da una parte, si tratta di uno sforzo critico superfluo, in quanto tali cognizioni sono ormai consolidate grazie alla bibliografia filologica sopra citata; d’altra parte, una simile impostazione suggerisce una confusione, che pare percorrere tutto il capitolo, tra l’attività di composizione e quella di raccolta e organizzazione delle poesie, in cui figure diverse da quella dell’autore potevano essere – e in molti casi erano verosimilmente – implicate. Inoltre, non convince e non pare rilevante per la collocazione storico-culturale della figura di Adam, l’enfasi posta a più riprese sulla concezione del libro-canzoniere come status symbol ‘mercantilista e proto-capitalista’ legato alla crescita della borghesia urbana (al contrario, il più delle volte la committenza è nobiliare: lo è sicuramente per M, ma pure per W) che giunge ad affermazioni infondate, come quella relativa alla «bourgeoisie of northern Italy producing deluxe collections of troubadour songs, complete with troubadour portraits» già all’inizio del XIII secolo (p. 114). L’ultima parte del capitolo è dedicata al Liederbuch adamiano, le cui fonti sono descritte sommariamente e con qualche imprecisione dovuta probabilmente al recupero di informazioni per via indiretta: tale l’affermazione che W contiene «the first half of Adam’s original Liederbuch only», da riferire invece a W’’ (indicato nel volume come Wx-trouv.), il fascicoletto incidentalmente rilegato in testa a W ma senza alcun rapporto con esso. Si torna, infine, a porre le domande anticipate all’inizio del capitolo, incentrandole ora sulla poesia di Adam de la Halle: «When did Adam begin writing down his songs, what kind of transmission was it, and where did this transmission activity take place?» (p. 115). Quesiti destinati in gran parte a rimanere insoluti, com’è normale nelle nostre ricerche su un passato lontano, ma per i quali il confronto con alcuni studi recenti avrebbe forse permesso di abbozzare almeno qualche minima risposta29.

«Taking Notae on King and Cleric: Thibaut, Adam, and the Medieval Readers of the Chansonnier de Noailles (T-trouv.

16Il capitolo 5, a firma di Judith Peraino, pur trattando solo marginalmente di Adam de la Halle, si può annoverare tra quelli più interessanti e innovativi dell’intero volume. Vi si indaga il significato delle indicazioni marginali «nota» apposte in più punti dell’artesiano Chansonnier de Noailles (Paris, BnF, fr. 12615, T) e particolarmente abbondanti nella sezione di Adam de la Halle. La datazione su base paleografica entro la fine del Duecento di tali marginalia fornisce un prezioso terminus ante quem (che non mi risulta sia mai stato fin qui evocato) anche per quest’ultima, che si presenta come un’aggiunta seriore al progetto iniziale del canzoniere. L’autrice presenta una rassegna dell’uso di indicazioni simili a partire da manoscritti altomedievali, con interessante focus su alcuni testimoni dell’Eneide con notazione musicale, dove «nota» pare possa significare proprio ‘metti la nota’, oltre al più scontato richiamo (‘fai attenzione, nota bene’). Più vicini nel tempo e più significativi si dimostrano i casi di tre canzonieri trobadorici, nei quali, come segnalato da Wendy Pfeffer, «nota» si trova in corrispondenza della presenza di proverbi nel testo. L’esame delle occorrenze nei corpora di Thibaut de Champagne e Adam de la Halle (tutte le porzioni di testo “notate” sono utilmente repertoriate nella tavola 5.6), che aprono e chiudono rispettivamente la silloge, suggerisce un uso simile anche da parte dell’‘annotatore’ di T, il quale «intended to create an archive of proverbial sentences from authoritative voices for their literary merit as part of a courtly digest or anthology, and for their sagacity as an archive of knowledge» (p. 143). Si delinea così un’antologia non necessariamente di proverbi già diffusi (molte delle espressioni non sono repertoriate nelle raccolte paremiologiche dell’epoca) ma piuttosto di sentenze di sapore gnomico che sarebbero potute diventare tali in virtù dell’auctoritas dei poeti coinvolti. In questo senso, la studiosa ipotizza un ruolo significativo di autori come Chrétien de Troyes nella genesi di proverbi, soprattutto di contenuto latamente “cortese”, che il pubblico avrebbe fatto volentieri propri. La conclusione del capitolo, sull’impostazione ideologica dell’annotatore e dunque del contesto in cui opera, merita di essere riportata per esteso:

For the annotator of ms. T-trouv., reading through an ethical lens may have helped make sense of the many authorial voices brought together in this one collection, from a past bellicose king remote in time and place, to contemporary clerics native to Arras who strove to carve a place for their own voices and words of wisdom within a long and saturated tradition of the courtly chanson d’amour. That the annotator read song lyrics as literary texts perhaps indicates a moment of waning interest in the chanson art form itself, that is, as the delivery of words through melodies and singing. This mining of song lyrics for quotable quotes destined for some non-musical context marks a significant shift in the social meaning of these chansons d’amour from a courtly pastime to an object of study (p. 149).

17Questi, in sintesi, gli aspetti più originali del capitolo, che, per il resto, da una parte ripercorre le canzoni d’amore di Thibaut e Adam leggendole singolarmente e in comparazione alla ricerca dei fondamenti della poetica dei due autori (per cui l’autrice si sarebbe potuta giovare della conoscenza della monografia di Zaganelli), dall’altra affronta – in maniera non sempre condivisibile – alcuni nodi della tradizione manoscritta della lirica trovierica nel suo complesso. Appare in particolare contestabile, in merito a committenza e origine dei canzonieri, la perentoria affermazione, desunta da Aubrey30, che

none of the northern chansonniers were produced in Paris, the site of the royal government; all come from regions that once boasted powerful aristocracies – especially Picardy and Artois, but also Lorraine and Burgundy (p. 129):

18la maggior parte dei testimoni del gruppo SII di Schwan sono infatti stati localizzati (benché senza prove davvero conclusive, ma pure senza elementi che lo smentiscano) in Île-de-France. Al di là dell’informazione in sé, è opinabile che questa sia utilizzata per costruire, a partire da un’evidente semplificazione, una tesi complessiva sulla produzione dei canzonieri – a rappresentare globalmente l’espressione della classe nobiliare in declino, in opposizione alla monarchia sempre più dominante – che nella sua rigidità non pare sostenibile. La tesi si fonda, tra l’altro, sull’ordinamento degli autori che rispecchierebbe la gerarchia sociale e sull’insistenza nel caratterizzare i poeti aristocratici con il loro titolo piuttosto che con il loro nome: tuttavia un simile ordinamento è proprio solo di un certo numero di sillogi (tra cui M), mentre in quelle duecentesche prevale in genere una sorta di canone dei trovieri classici (quando non si opta addirittura per l’ordine alfabetico degli incipit), e la stessa pletora di conti, duchi, re e visconti si trova nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, dove manca del tutto la tendenza a organizzare le sillogi in base alla gerarchia sociale. Inoltre, la studiosa stessa finisce per mettere in luce i limiti della propria impostazione: constatando che l’ordinamento gerarchico si interrompe in genere dopo i primi cinque o sei nomi con l’inserimento di poeti borghesi, si trova costretta ad ammettere che «the veneration of the nobility at the front of these anthologies monumentalized a socio-economic world no longer operative, evident in the intrusion of non-nobles» (pp. 130-131). A questo punto, non è più molto chiaro chi possano essere i committenti e il pubblico di questi canzonieri e di fatto la questione viene lasciata in sospeso, se non implicitamente rimossa. Assai più significative risultano alcune considerazioni avanzate su punti di dettaglio: tra queste, l’ipotesi che il «Nota» che si incontra in luogo dell’iniziale non realizzata in testa alla sezione di Huon d’Oisy in M suggerisca che il miniatore stesse forse aspettando informazioni sulle insegne di questo signore-troviero.

«The Northern Jeu-Parti»

19Nel capitolo 6, che apre la terza sezione del volume, Daniel O’Sullivan fornisce innanzi tutto, nei primi 4 paragrafi, una descrizione piuttosto didattica del genere jeu-parti in generale, del suo sviluppo in diacronia dalla cerchia di Thibaut de Champagne all’ambiente cittadino e borghese di Arras e della sua tradizione manoscritta, considerata nella consueta prospettiva circoscritta alle singole sillogi, senza trattare di fonti e genealogia (per cui rimane invece fondamentale lo studio di Roberto Crespo31). Segue un’analisi dettagliata (tabella 6.1) di forma e contenuto dei componimenti di Adam de la Halle. Tra questi andrebbe ricordato che la paternità di RS. 1443 (Lkr 1.9, Compains Jehan, un gieu vous voel partir) è controversa, dal momento che se W lo assegna a Adam de la Halle, M e T lo attribuiscono invece a Adam de Givenchi, che secondo la critica più recente ne sarebbe verosimilmente l’autore32. Dopo un breve accenno agli interlocutori di Adam, su tutti Jehan Bretel che lo invita a tenzonare almeno 15 volte, il discorso si sposta sullo stile dei testi, caratterizzato da un uso di immagini e concetti presi dalla vita quotidiana, che si accompagna a riferimenti culturali di matrice clericale ma soprattutto letteraria (tale la menzione di Aristotele cavalcato dall’amata nel jeu-parti RS. 277, che rimanda al lai eponimo, ben più che alla figura del filosofo in quanto tale) in un felice mélange. Viene, infine, discusso se la tenzone con Bretel in 20 stanze possa essere considerata propriamente un jeu-parti, tenendo conto di tutte le contraintes formali e contenutistiche del genere. Dopo lunga disamina che recupera la poca bibliografia precedente, la conclusione (p. 187), che mi pare del tutto condivisibile, è la seguente:

In the final analysis, RS 1675 belongs to the genre both in spite and because of how it stretches the conventions of the jeu-parti. In a way, it is like a double jeu-parti: the first eight stanzas, taken alone, constitute a conventional example of the genre, though the question is posed more openly than in other debates.

20In effetti, anche considerato il milieu, oltre a tutte le altre caratteristiche evidenziate, non pare di poter considerare questa “tenzone” alla stessa stregua di quelle, assai più corrispondenti ai modelli occitanici, di Thibaut de Champagne e altri poeti di corte.

«The Songs of Adam de la Halle»

21Il capitolo 7, dedicato da Isabelle Ragnard alle canzoni di Adam è il primo del volume in cui la prospettiva musicologica sia davvero predominante (in quelli precedenti anche musicologi come Haines e Peraino si occupavano pressoché soltanto di testi); sarà così anche nei capitoli seguenti, ad eccezione di quello di Corbellari. Ragnard segnala in limine la divergenza tra la ricezione moderna, critica e non, dell’opera musico-poetica di Adam, in cui la polifonia è al centro dell’attenzione, e quella medievale, che ritiene tradizionalmente più importante la lirica monodica delle chansons. Significativo il dato relativo alle incisioni (p. 189, n. 2): a fronte delle numerose esecuzioni dei rondeaux, quelle delle canzoni «can be counted on one hand» e solo una presenta più di 10 pezzi. Come per i jeux-partis nel capitolo precedente, l’analisi dei componimenti è preceduta dalla presentazione delle fonti (e delle edizioni con le loro scelte, anche ecdotiche), secondo l’impostazione già sopra discussa. Quanto alla consistenza della tradizione a monte dei testimoni conservati, troviamo qui la constatazione che «there is some evidence to suggest that Adam’s songs circulated independently as a special collection» (p. 191), ma senza riferimenti alla bibliografia filologica che l’avrebbe corroborata33, se non la riproposizione dell’ipotesi di Huot che «reoccurring series of songs suggest the existence of a compilation initially organized by Adam himself, or by his nephew, Jehan Madot» (p. 192). Tuttavia, se è plausibile che un autore come Adam abbia concepito una raccolta delle proprie canzoni, non vi sono indizi del coinvolgimento di Madot. Paiono molto opportune le puntualizzazioni sull’impiego limitatissimo dei refrain nelle canzoni da parte di un poeta che ne faceva invece un uso importante e assai significativo in altri generi (come si dirà nei capitoli seguenti) e sull’impossibilità di datare le canzoni stesse. Un paragrafo è poi dedicato alle questioni notazionali e al ritmo delle melodie. La tradizione delle musiche è tendenzialmente stabile – non diversamente da quella dei testi – anche al netto dei casi minoritari in cui sono attestate due o persino tre melodie diverse per la stessa canzone: per tali casi, è condivisibile la posizione scettica espressa dalla studiosa quanto alla possibilità di identificare la melodia originale, meno l’allusione al ruolo della tradizione orale nel generare simili divergenze. Quello dell’oralità è un argomento a cui la critica musicologica (ma non solo) ha fatto spesso ricorso laddove fosse arduo trovare spiegazioni convincenti a certi accidenti della tradizione. Va però tenuta presente, da una parte, la predominanza della dimensione scritturale nell’ambiente culturale di Adam de la Halle, come giustamente sottolineato da Haines nel suo capitolo. D’altra parte, nel caso specifico, pare più probabile che una melodia del tutto diversa derivi da una riscrittura a tavolino, piuttosto che dalla somma delle modificazioni dovute alla sua ricezione aurale e successiva registrazione eventualmente memoriale. Segue una sintesi su contenuto e stile dei testi, che riprende in maniera equilibrata gli studi di Dragonetti, Zaganelli e Marshall, con affondi puntuali su espressioni utilizzate, teatralità e interlocutori citati negli envois. Nella presentazione delle «poetic and musical structures» (repertoriate, insieme agli schemi melodici, nella tabella 7.1), si può essere d’accordo con l’ipotesi che le tre canzoni che presentano meno di cinque stanze nella tradizione siano complete, dal momento che la dimensione ridotta si accompagna a contenuti e registro divergenti rispetto a quelli del grand chant; inversamente, l’unica canzone di due sole strofe va considerata incompleta (o incompiuta), anche sulla base dell’eccezionale assenza della melodia (tràdita invece per tutte le altre). Secondo Ragnard, che prende posizione in un dibattito aperto tra i musicologi, l’analisi delle melodie di Adam porta a riconoscere alle sue canzoni una raffinatezza stilistica che richiede attenzione a chi ascolta, ma che è anche capace di trasmettere un senso di spontaneità e freschezza. Ciò dipende dalla predilezione dell’autore per melodie non complesse (tutte pedes cum cauda, come nella maggior parte della tradizione trovierica) costruite con il sapiente uso delle variazioni (anche con una netta preferenza per l’eterometria, che è di 31 canzoni su 36) in schemi e frasi che tendono a evitare il più possibile la ripetizione (solo le due canzoni gemelle, ma con significato opposto, RS. 145 e 146 presentano un identico schema metrico-melodico). In conclusione, la studiosa ritiene di poter proporre una descrizione della forma-tipo della canzone d’amore adamiana (pur essendo ben consapevole del fatto che solo due componimenti seguono esattamente questo schema):

These combined observations on the versification and the musical structure of Adam’s songs show that his typical stanza is heterometric and eight lines long, mixes masculine and feminine rhymes, can be metrically divided by crossed rhymes and enveloped rhymes (abab bccb) and is musically divided into a pedes and a cauda (ABAB CDEF). (p. 213)

22Le tre canzoni che più si allontanano dal modello sono, non a caso, etichettabili rispettivamente come chanson de femme, serventois, chanson mariale, piuttosto che come chanson d’amour.

«Adam de la Halle: Cleric and Busker»

23La quarta parte del volume si apre con il capitolo di Alain Corbellari, incentrato sulla figura di Adam in quanto chierico: che cosa ne possiamo sapere a partire dalle testimonianze disponibili (in primis, al solito, la sua stessa opera)? Che significato e che ripercussioni può avere avuto la sua condizione clericale – «neither wholly secular nor wholly religious […] precisely at the crossroads of the “estates of the world”» (p. 231) – sulla sua produzione letteraria? Da una parte, lo studioso riprende «without a doubt» (p. 234) l’idea – come detto, invece, opinabile – che il titolo di maistre che spesso accompagna il nome di Adam fosse riservato soltanto a chi aveva frequentato lo studium, adducendo a conferma la scarsità di poeti lirici che se ne fregerebbero (ma l’esemplificazione è fatta sul solo codice Manesse dei Minnesänger, senza menzionare i non pochi trovatori e trovieri etichettati come tali). D’altra parte, Corbellari sottolinea anche l’interessante circostanza che gli interlocutori di Adam nei jeux-partis non si rivolgano mai a lui chiamandolo «maistre», al contrario di quanto accade nel Jeu de la Feuillée. Qui l’insistenza con cui il personaggio-Adam è apostrofato in questo modo farebbe trasparire in filigrana l’ironia nei suoi confronti: autoironia, dunque, dal momento che è l’autore stesso che parla di sé, in riferimento alla propria condizione dimidiata, da «chierico bigamo» per usare una formula corrente nel dibattito pubblico dell’Arras dell’epoca, tra amore e clergie (su cui vedi infra). Ma una simile interpretazione, per quanto in linea con la poetica di Adam, pare fin troppo acuta: il personaggio in questione si presenta come chierico (fin dall’abito) ed è quindi del tutto naturale che sia chiamato tale. Tornando ai jeux-partis, l’appellativo «(mes)sire» in genere impiegato in risposta da Adam suggerisce che quest’ultimo si consideri quantomeno sul piano anagrafico come uno «younger brother» di Jehan Bretel e Jehan de Grieviler, malgrado questi lo trattino come un esperto nelle cose d’amore. Ne esce così rafforzata l’ipotesi di datazione del complesso dei jeux-partis adamiani a una fase sì precoce, ma non troppo giovanile della sua produzione (magari posteriore alla composizione di almeno una parte delle canzoni). Nella ricerca del senso della clergie per il troviero, sarebbe degna di nota la posizione espressa nel già citato jeu-parti su Aristotele (RS. 277), in cui Adam risponde a Bretel che, pur meno sapiente dell’illustre modello, può contare su un trattamento ben più soddisfacente da parte dell’amata. «Adam thus resists an assimilation with clerkliness that he feels is a trap, and, in fact, his love songs – unlike the Jeu de la feuillée! – show no trace of any clerkly distaste» (p. 234). Constatata l’assenza, o quasi, di tracce di una posizione “clericale” nei testi lirici, il resto del capitolo è dedicato all’interpretazione di alcuni passaggi significativi dell’opera teatrale. Sul discusso sintagma «or revois au clergiet» del v. 2, la lettura di Corbellari, a partire da una proposta di Claude Mauron (il prefisso re- può avere valore intensivo, piuttosto che iterativo), mi pare del tutto condivisibile e decisamente migliorativa rispetto a quella vulgata («‘I am returning to my studies’», p. 237): Adam dice di voler andare a Parigi a studiare, non di esserci già stato. Altrettanto ragionevole è, ad ogni buon conto, il caveat che segue, spesso ignorato dalla critica: non è il caso di prendere alla lettera e declinare in senso strettamente biografico tutto ciò che l’Adam-personaggio dice di sé. Trovo invece meno convincente l’idea che il poeta possa essere diventato chierico in un’età non giovanissima, basata proprio sull’assenza di riferimenti clericali nella sua produzione lirica e sulla contrapposizione tra amour e clergie nella Feuillée (composta in età più matura). Di certo, il troviero era già chierico al momento della composizione del jeu-parti su Aristotele, dal momento che Bretel gli rinfaccia che, facendosi cavalcare, ha ‘molto umiliato la clergie’ (v. 21, non discusso da Corbellari), e, in fondo, per dare conto della differente postura dell’autore basterebbe forse il divario ideologico e poetico tra i due generi letterari. Lo studioso segue poi una consolidata tradizione critica nell’intendere il Jeu come costruito sulla duplicità, sulla valorizzazione di una polarità al contempo oppositiva e complementare, funzionale a dar conto del dissidio di Adam, personaggio ma anche autore: ecco quindi i due stili di vita dello studioso e dell’amante, cui corrispondono le due città, Parigi e Arras (a sua volta luogo ambivalente dell’innalzamento nell’esperienza d’amore e dell’incanaglimento nelle concrete miserie di una quotidianità dominata dal commercio), nessuna delle due del tutto negativa o positiva; ecco i due ritratti della moglie Maroie, a configurare a loro volta una sorta di bigamia; ecco, ancora, il doppio di Adam rappresentato dal dervé (entrambi dotati di un padre ingombrante) a prefigurare che l’evidente metaforica schizofrenia di un uomo in profonda crisi d’identità possa sfociare in vera e propria follia. Quanto alla questione della condanna papale dei chierici bigami, che fornisce – com’è noto – un importante indizio per datare il Jeu al 1276, lo studioso concorda con chi, prima di lui, ha sostenuto che l’Adam-autore (tanto quanto l’Adam-personaggio) non prenda posizione su questo argomento di grande attualità, che doveva suscitare reazioni di segno diverso nei suoi concittadini: in effetti, pare proprio che nel testo esso sia usato come un puro spunto per l’intrattenimento del pubblico arrageois. Alla luce di tutte le argomentazioni addotte, non si può che concordare con la prudente conclusione proposta: la clergie di Adam, autore complesso e straordinario, risulta ben difficilmente incasellabile.

«Refrain Quotations in Adam’s Rondeaux, Motets and Plays»

24Anne Ibos-Augé, responsabile insieme a Mark Everist del database Refrain, dedica il proprio capitolo proprio all’uso dei refrains da parte di Adam de la Halle. Dopo una preliminare definizione di refrain e rondeau, sono evocate alcune questioni di ordine generale legate all’interpretazione del refrain lirico, quali: il suo legame con il resto del componimento in cui si trova inserito (a questo proposito, sarebbe forse opportuno qualche distinguo tra virelai, rondeaux e chansons avec des refrains, che intrattengono un rapporto assai diverso con i loro refrains); come considerare gli unica, ossia i refrains che non determinano – almeno apparentemente – un rapporto intertestuale; come considerare la variazione testuale (per quella musicale vedi infra) tra le diverse attestazioni; come determinare la cronologia di queste ultime e dunque, eventualmente, l’origine dei refrains. Tutte questioni di grande rilevanza quando si tratta di un autore raffinato e originale come Adam, che non disdegna, tra l’altro, l’autocitazione. Proprio sull’equivalenza, effettiva o presunta, tra refrain e citazione (si veda il titolo del capitolo), la trattazione è piuttosto evasiva e, laddove pare alludere a una differenza funzionale, risulta meno limpida di quanto sarebbe auspicabile (come quando viene detto che nel Jeu de Robin et Marion l’autore «blurs the boundaries between refrain and citation», p. 251). Segue la disamina dei refrains su cui sono costruiti i rondeaux adamiani. Un primo dato interessante che se ne ricava è il ridotto numero di unica, quattro, due dei quali si lasciano però ricondurre a refrains molto simili: uno, in particolare, è usato dal concittadino Colart le Bouteillier in una canzone dal contenuto simile a quello del rondeau di Adam, che quindi a quella alluderebbe. Un altro dato degno di nota è la preponderanza, tra i refrains sicuramente intertestuali (e le cui occorrenze coprono un intero secolo, dal Roman de la Violette di Gerbert de Montreuil al cosiddetto dit enté inserito nella versione attribuita a Chaillou de Pesstain del Roman de Fauvel), di quelli – sette su dieci – che compaiono nel Renart le Nouvel composto dal poeta di Lille Jacquemart Giélée a partire dal 1288: in base a tale datazione la critica ha postulato che i rondeaux di Adam stiano alla base del prestito, che si rivela particolarmente significativo nella versione del romanzo tràdita dallo stesso codice W (come puntualizza Everist nel capitolo 11). Un’approfondita analisi del rapporto tra testi e melodie di questi sette casi occupa alcune delle pagine seguenti. Proprio le divergenze evidenziate da tale analisi conducono la studiosa ad avanzare l’interessante ipotesi di una trasmissione indipendente di testi e musiche dei refrains tra i rondeaux di Adam e il Renart le Nouvel. Se, però, la questione della variabilità testuale è affrontata a più livelli, dapprima segnalando che i refrains maggiormente mutevoli sono quelli la cui melodia non presenta attestazioni plurime (come per le occorrenze nei testi narrativi o nelle «chansons without musical notation», p. 253), poi suggerendo che la variazione possa diventare più significativa all’aumentare della distanza temporale tra le diverse occorrenze del refrain, la questione della variabilità melodica non viene invece problematizzata e, nell’ultima parte del capitolo, il fenomeno è semplicemente accettato come un dato di fatto (nel capitolo seguente, Anne Kathryn Grau accenna a uno dei vari punti sensibili del problema: quello della melodia verosimilmente variabile dei refrains inseriti nelle chansons avec des refrains, p. 290, n. 33). Un refrain collega, con perfetta corrispondenza testuale e melodica, un rondeau di Adam a uno dei motets entés tràditi tra le aggiunte seriori di M. Su questa forma musico-poetica, Ibos-Augé riporta la posizione dei musicologi Ludwig e Gennrich, che ritengono si tratti di veri e propri mottetti a due voci trascritti però senza il tenor: a favore di tale ipotesi starebbe, ad esempio, l’assenza di spazio per trascrivere il tenor nelle zone di M usate per inserire le aggiunte. Tuttavia, come pure afferma correttamente l’autrice, questi componimenti di M sono assimilabili ai motets entés di N (Paris, BnF, fr. 845, unico testimone conservato ad avere una rubrica che riporta l’etichetta di genere), dove l’assenza del tenor va ritenuta intenzionale perché lo spazio non sarebbe mancato: pare quindi assai più ragionevole considerare i motets entés nel loro complesso come una declinazione monodica del mottetto (così Peraino)34. Come noto, due tra i quattordici componimenti copiati nella sezione dei «rondel Adan» di W, Fines amoretes ai (Lkr 2.46) e Dieus soit en cheste maison (RS. 1870a), sono polistrofici e formalmente anomali rispetto alla fissità del rondeau. La trattazione che ne viene data in questo capitolo, sbilanciata sugli aspetti melodici, tende da una parte a isolare gli elementi (soprattutto a livello di ripetizioni) riconducibili in effetti al rondeau, dall’altra giunge alla conclusione – non nuova da parte della critica – che questi componimenti avrebbero posto le basi per la genesi di virelai e ballade (le cui prime attestazioni sono in effetti posteriori rispetto all’opera di Adam). Tuttavia, solo un’analisi congiunta della loro struttura musicale e testuale può portare un’interpretazione adeguatamente fondata della loro forma, che sembra essere in particolare lontana da quella del virelai35, come segnalato anche da Everist nello stesso volume (ma piuttosto inaccurata appare la trattazione da parte dello stesso studioso di Dieus soit en cheste maison, che non può essere descritto come un «rondeau quatrain» [p. 321]: l’example 11.2 ne ricostruisce la struttura prescindendo dallo schema delle rime e inserisce come verso finale una ripresa del primo verso della prima strofa, senza riguardo alla testimonianza del codice). Per quanto concerne i mottetti, Ibos-Augé vi rileva, da una parte, un impiego dell’autocitazione assai più significativo che nei rondeaux, basato in particolare – ma non soltanto – sul riuso da parte di Adam di propri refrains, dall’altra, un rapporto significativo con il repertorio parigino di Mo (Montpellier, Bibliothèque Interuniversitaire – Section Médecine, H 196), senza che sia possibile stabilire la direzione dei prestiti (ma si veda infra). Nell’ultima parte del capitolo, l’attenzione si sposta sulle pièces teatrali: qui sono evidenziati i rapporti tra i diversi refrains impiegati e con le altre attestazioni degli stessi, per concludere sulla tendenza di Adam a rimodellare materiali già circolanti in un’ottica di coerenza anche strutturale complessiva. Dal punto di vista degli ambienti culturali e della dominanza registrale, la studiosa annota poi come i refrains dei rondeaux rimandino fondamentalmente alla produzione di trovieri artesiani, quelli dei mottetti all’ambiente clericale parigino, quelli dei jeux drammatici al genere della pastorella (di cui, come dirà Grau nel capitolo seguente, il Robin et Marion costituisce un’evidente reinterpretazione complessiva in versione amplificata). Un aggiustamento di un certo rilievo a tale impostazione viene proposto da Everist nel capitolo 11: qui l’analisi dei refrains dei rondeaux adamiani giunge a individuare corrispondenze abbondanti con quelli usati, anche in questo caso, nei mottetti di Mo (in particolare nel settimo fascicolo), suggerendo che la direzione del prestito sia globalmente da Parigi verso Arras. A partire dalla considerazione dell’importanza quantitativa e non solo del corpus di refrains variamente messo a frutto da Adam, che non ha pari, Ibos-Augé sottolinea come per il poeta il refrain non costituisca un puro e semplice momento puntuale di intertestualità, ma risulti funzionale alla creazione di un autentico network polifonico. In questo senso, l’atteggiamento di Adam (e si potrebbe dire lo stesso di tutta la sua epoca: il suo caso è certo il più emblematico ma non l’unico né forse il primo) nei confronti del refrain appare ben diverso da quello degli autori della prima metà del secolo. Anche in questo saggio si constata, infine, qualche lacuna nell’informazione bibliografica e una certa disinvoltura nel considerare gli aspetti filologici, soprattutto in merito alla tradizione manoscritta: si dice, ad esempio, in maniera piuttosto contraddittoria, che i canzonieri del gruppo SII di Schwan, etichettato come «Francien group» (p. 269) con rinvio a un articolo su Colin Muset di Christopher Callahan, provengono da Artois o Piccardia. La confusione, in assenza di altre informazioni più fondate, proviene in parte dalla fonte, dove si parla di «zone franco-picarde», escludendo in maniera apodittica l’esistenza di canzoniere parigini (come già sopra ricordato), salvo riconoscere che la scripta dei principali prodotti di SII pare essere franciana36.

«The Pastourelle and the Jeu de Robin et Marion»

25Nel capitolo 10, come anticipato, Anna Kathrin Grau discute del rapporto tra il Jeu de Robin et Marion e il genere lirico della pastorella. La questione è tanto più intrigante in quanto Adam de la Halle non ha mai composto, per quanto se ne sa, componimenti afferenti a questo genere, cui avevano già dato lustro Jehan Bodel e alcuni dei maggiori fra i trovieri suoi concittadini (su tutti Jehan Erart). La trattazione si apre con un tentativo di definizione e descrizione della pastorella, di per sé assai opportuno ma fondato su una rassegna tendenzialmente neutrale della critica precedente che, prendendo in considerazione a seconda dei casi componimenti occitani e/o francesi di ogni epoca e milieu, ha individuato, com’è naturale, motivazioni ideologiche molto divergenti tra loro. Chi leggesse queste pagine senza conoscere già i sommi capi della questione potrebbe quindi ricavarne un’idea piuttosto confusa rispetto all’interpretazione del genere nel suo complesso, laddove, invece, una puntualizzazione sulla sua variabilità interna nel percorso diacronico e diatopico che va da Marcabru ai poeti di Arras del secondo Duecento avrebbe forse potuto suggerire una prospettiva ermeneutica più coerente. Anche per il Jeu de Robin et Marion – ricorda Grau – diverse chiavi di lettura sono state proposte. La studiosa fa sua quella di Huot, fondata sulla valorizzazione della polifonia intesa in senso bachtiniano: tale polifonia si nutre (come notato da Saltzstein e Butterfield) dell’uso di refrains-citazioni che, da una parte, individuano un repertorio lirico di riferimento incentrato sulle pastorelle che il pubblico di Arras doveva ben conoscere, dall’altra vengono rielaborati e reinterpretati in maniera personale da Adam ai fini della propria costruzione drammaturgica. Proprio ai refrains è dedicata ampia parte del discorso, in continuità con il capitolo precedente, confermandone le centralità nella poetica polifonica (in qualunque senso si voglia intendere l’aggettivo) adamiana. Dopo aver constatato che le inserzioni liriche nel Jeu di Adam sono state in genere considerate tutte come dei refrains da parte della critica (soprattutto quella meno recente, va detto), Grau cerca di definire, a partire dal repertorio di van den Boogaard, che cosa sia un refrain, in particolare nel caso dei brani in attestazione unica. La posizione espressa è equilibrata e condivisibile (e apprezzabilmente più chiara di quella assunta da Ibos-Augé qualche pagina sopra): non ha senso considerare come refrain ciò che molto probabilmente non lo è per struttura, registro e contenuti (quale ad esempio l’incipit da pastorella), mentre è più proficuo domandarsi il senso dell’inserimento di un pezzo che ‘suona come’, ‘dà l’idea di’, anche laddove risulta impossibile stabilire se fosse preesistente o meno. Ogni inserzione lirica andrà dunque valutata per sé, evitando di avanzare forzatamente un’ipotesi di lettura comune. Peraltro, è un fatto che molte di tali inserzioni, sul cui numero complessivo la critica diverge, sono più lunghe di qualsiasi refrain pluriattestato. Per alcuni duetti lirici presenti nel Jeu è ripresa da Théodore Gérold l’interpretazione strutturale come di «ballette form», «ballette-like songs», «pastourelle-ballette» (p. 298-299), senza però spiegare che cosa sia una «balle(t)te», né fornire rimandi bibliografici in merito: l’etichetta, com’è noto, compare soltanto in una rubrica del canzoniere I (Oxford, Bodleian Library, Douce 308), e il corpus lirico a cui si riferisce, formalmente piuttosto eterogeneo e accomunato dalla sola presenza di refrain, è stato oggetto di diversi saggi negli ultimi 50 anni, a partire dalla messa a punto di Pierre Bec37. In definitiva, Grau individua due diversi tipi di inserzione lirica, pur riconoscendo che esistono casi incasellabili in entrambi: brani che dànno origine a forme brevi con ripetizione interna, in genere per la resa lirica di uno scambio dialogico, e pezzi isolati più riconducibili all’estetica del refrain. Quanto alla questione della paternità di tali inserzioni, si può essere d’accordo nel riconoscere che mancano elementi per affermare, come fatto a suo tempo da Jacques Chailley, che Adam abbia sempre recuperato testi e melodie altrui. Nel quadro di un’interpretazione generale delle inserzioni, occorrerebbe quindi tenere conto dell’eventualità che il poeta stesso ne sia talora l’autore. Venendo al Jeu de Robin et Marion nella sua globalità, Grau si ispira all’interessante lettura avanzata da Peraino del Renart le Nouvel come una sorta di macroscopico motet enté per l’uso che fa dei refrains musicati, per proporre di intendere la pièce di Adam come una macro-pastorella, proprio sulla base dell’uso che vi viene fatto delle inserzioni liriche. La proposta interpretativa è convincente, anche perché del tutto coerente con lo stato dell’arte sul tema (si vedano, ad esempio, le dense pagine dedicate da Rosanna Brusegan al rapporto del Jeu con la pastorella nell’introduzione all’edizione del testo)38. L’ultima parte dell’articolo si concentra, per sostanziare questa tesi, sulla voce di Marion (vale la pena ricordare che la studiosa è autrice di una tesi di dottorato proprio sulla voce femminile nella poesia del Duecento39). Si sottolinea come il suo personaggio sia cruciale per costruire una parodia della pastorella classica (o, per meglio dire, sovvertirne i criteri) nel farsi protagonista al posto del cavaliere, essendo lei e non lui a condurre il dialogo, che in effetti solo all’inizio è costruito sulla ripetizione metrico-melodica del suo refrain. Il ribaltamento dei ruoli e la marginalizzazione del cavaliere arrivano fino alla richiesta del suo nome da parte della pastora, gesto che esclude definitivamente la tradizionale, per quanto controversa rispetto all’etica cortese, identificazione del cavaliere con l’io-lirico. Tale gesto esprime soprattutto il rifiuto della subordinazione della voce femminile a quella maschile tipica del genere pastorella («ventriloquize» è il verbo a più riprese riferito alle battute delle giovani pastore). Siamo, dunque, in presenza di uno degli esempi forse più emblematici della polifonia adamiana, con la voce dell’autore che si frammenta in quelle dei suoi personaggi, tra le quali, in particolare, quella femminile di Marion pare dominare la scena. Nella conclusione, è senz’altro condivisibile l’insistenza sul legame di Adam con il Jehan Bodel autore di pastorelle; meno convincente è invece quella sull’idea di Saltzstein che suggerisce di considerare Adam come un ‘troviero riluttante’, la cui postura autoriale più autentica andrebbe individuata nel percorso di allontanamento dalla lirica tradizionale. Questa idea, qui ripresa per spiegare il fatto che il confronto con l’illustre concittadino per quel che concerne la pastorella viene sviluppato da Adam al di fuori del dominio della lirica, pare viziata da un pregiudizio critico legato alla cronologia indicativa della produzione adamiana: è, però, la stessa presentazione che ne dà W a suggerire che non si possano gerarchizzare le opere secondo un criterio di anteriorità/posteriorità o, ancor meno, secondo il gusto degli studiosi moderni. Al di là della difficoltà di capire quanto davvero Adam fosse riluttante a concepirsi come un troviero anche in età matura, resta il fatto che la pastorella non è la canzone d’amore e che lo stesso Bodel, autore in ambito lirico di sole cinque pastorelle, è difficilmente considerabile come un tipico troviero.

«Friends and Foals: The Polyphonic Music of Adam de la Halle»

26Dopo che la polifonia è stata più volte evocata in senso letterario per parlare dei testi di Adam, il capitolo a firma di Mark Everist, affronta la questione in termini musicologici. Si parte dall’assunto che la polifonia è centrale nell’opera di Adam e fondamentale per comprenderla nel suo complesso: sorprende pertanto che la critica se ne sia occupata così poco, rispetto ad altri aspetti di tale opera, e quasi mai globalmente. In una panoramica sulla tradizione manoscritta di rondeaux e mottetti (per cui, come di consueto, si rimanda essenzialmente alla bibliografia di parte musicologica), viene recuperata un’interessantissima informazione riportata da Coussemaker, ma fin qui ignorata dagli studi più recenti: la presenza in uno dei frammenti raccolti nel ms. indicato come CaB (segnatura aggiornata: Cambrai, Le Labo, 1328) delle ultime due stanze dell’ultimo jeu-parti e dei primi quattro rondeaux adamiani di W, in continuità ed esattamente nello stesso ordine (con la sola eccezione dell’assenza in CaB di Adest dies hec tercia). Ciò porta a supporre che i due testimoni discendano da uno stesso modello e che, dunque, già prima della confezione di W circolasse ad Arras una raccolta contenente sia monodia che polifonia del grande troviero. Altri elementi, come la scelta di un mottetto a due sole voci (un unicum, in un repertorio maggioritariamente a tre voci) a riempire perfettamente il poco spazio rimasto in fondo a c. 37r di W, suggeriscono invece una stretta connessione tra composizione dei testi, organizzazione della raccolta autoriale e mise en page dell’unico testimone completo. In una prospettiva di evoluzione diacronica del genere rondeau, a partire dai prototipi di 6 versi (come quelli citati nei romanzi e nei mottetti più antichi) in direzione di forme più lunghe ed elaborate, Everist attribuisce i componimenti di Adam, tutti di 8 versi, a una fase già avanzata e di pieno successo della forma ormai fissa, ponendo il momento di transizione tra le due mode nel corso degli anni Settanta del Duecento. In ogni caso, quello adamiano sarebbe l’unico repertorio, insieme al corpus tràdito adespoto e senza notazione musicale da k (Paris, BnF, fr. 12786), di rondeaux polifonici a tre voci dell’epoca. Quanto al registro dei rondeaux di Adam, lo studioso lo caratterizza come cortese, distinguendolo così da quello che informa i rondeaux più antichi e spesso quelli di k (così come – aggiungo – alcuni di quelli di Guillaume d’Amiens conservati in a), che mostra evidenti affinità con il registro della pastorella. In realtà, si potrebbe forse più adeguatamente definire il registro dei rondeaux di Adam come «cortese-leggero»: un registro, cioè, in cui tratti della poetica della canzone di matrice trobadorica si mescolano a elementi, soprattutto lessicali, di tono più popolareggiante (un simile registro ibrido si incontra, ad esempio, nella maggior parte delle balletes del canzoniere I)40. Ad ogni modo, solo due componimenti fanno eccezione: il più interessante è senz’altro la canzoncina natalizia Dieus soit en cheste maison (RS. 1870a), tra i rarissimi testi non profani nel repertorio generale dei rondeaux (e, in effetti, come anticipato supra, non si tratta formalmente di un rondeau). Ha probabilmente ragione Everist nell’ipotizzare che questa sia stata scelta per suggellare la sezione dei rondeaux in W, allo stesso modo delle chansons à la Vierge che chiudono quella delle canzoni (senza contare Adest dies hec tercia, due volte trascritto al termine di canzoni e jeux-partis). Anche in questo capitolo si offre poi una descrizione, più approfondita che altrove nel volume, delle melodie dei rondeaux e si affronta la questione relativa ai refrains, partendo da un inquadramento generale per stringere sull’uso fattone da Adam de la Halle (come si è già accennato supra, dando conto del capitolo 9). Laddove esista una versione monodica dei rondeaux, che corrisponde in genere alla voce di mezzo dei componimenti a tre voci, rimane il dubbio su quale delle due versioni sia antecedente: lo studioso pare propendere per una priorità cronologica della polifonia – il che sarebbe in linea con quanto proposto in alcuni studi recenti sul rapporto tra alcuni mottetti e componimenti trovierici41 (e potrebbe valere anche per la genesi del motet enté come un’estrapolazione a partire dal genere polifonico) – arrivando a ipotizzare che possa aver composto polifonia anche Guillaume d’Amiens (alcuni dei suoi rondeaux monodici in a si trovano in versione a tre voci in k). Esaurita l’approfondita trattazione dei rondeaux, il paragrafo seguente sui mottetti adamiani si apre ancora con un caso difficilmente districabile di mottetto tràdito da Mo (settimo fascicolo) che ha per motetus un rondeau del troviero e per tenor l’incipit di un rondeau anonimo di k. Le tre diverse ipotesi di genealogia che vengono avanzate presentano tutte almeno un tratto che contrasta con ciò che si ritiene di sapere sulle modalità di composizione di mottetti e rondeaux all’epoca: cautamente, Everist evita di prendere posizione. L’analisi musicale e la ricerca delle corrispondenze all’interno dei mottetti porta ad affermare che Adam si rifacesse a composizioni risalenti almeno a una generazione prima della sua. È degna di nota la sottolineatura del fatto che in questo repertorio Adam sfrutti i refrains in maniera assai meno importante che altrove nella propria opera (benché sia da rettificare l’affermazione che i refrains costituiscano invece un elemento rilevante in canzoni e jeux-partis: cfr. il capitolo 7 di Ragnard). L’ultimo argomento trattato in questo capitolo davvero ricco e originale riguarda l’unico mottetto in cui compare per ben due volte (in due diverse voci) il nome di Adam, considerato come un testo di ambiente confraternale. La confraternita di Arras a cui fa riferimento doveva essere in rapporto con quelle che erano presenti in molte altre città francesi nella seconda metà del XIII secolo: s’intravede così un vero e proprio network implicato nella composizione e circolazione di mottetti che resta in larga parte da esplorare.

«Adam de la Halle’s Fourteenth-Century Musical and Poetic Legacies»

27Nel dodicesimo e ultimo capitolo, la curatrice del volume fa il punto sulla ricezione dell’opera straordinaria di Adam, tanto sul piano testuale quanto su quello musicale. Il suo successo, che sarebbe materialmente testimoniato dall’usura che mostrano codici come W e Méjanes (Aix-en-Provence, Bibliothèque Méjanes, 166, latore di una versione del Jeu de Robin et Marion) secondo l’ipotesi di Stones (ma vedi sopra per qualche dubbio in merito), è più solidamente dimostrato dalla quantità di riferimenti e prestiti che la critica ha da tempo individuato nella produzione coeva e posteriore. Saltzstein si concentra in particolare su quella trecentesca, chiedendosi quale importanza e significato potesse rivestire per gli autori dell’epoca il modello musicale e poetico rappresentato da Adam. Il punto di partenza è, ancora una volta, il repertorio dei refrains, il cui riuso intertestuale permette di individuare una rete di rimandi che andranno considerati rilevanti tra i rondeaux e il Jeu de Robin et Marion adamiani, il Renart le Nouvel, il canzoniere I (in particolare le balletes, i rondeaux e i mottetti monodici) e il Tournoi de Chauvency di Jacques Bretel, tramandato – tra gli altri – dallo stesso codice. Nicole de Margival, autore nel primo quarto del XIV secolo del Dit de la Panthère, celebra l’auctoritas lirica di Adam, di cui cita ben nove canzoni, per sancirne però il superamento in direzione delle formes fixes. Un altro esempio, questa volta indiretto, di influenza della poesia adamiana, sarebbe rappresentato dall’interpolazione del Roman de Fauvel nella versione del ms. Paris, BnF, fr. 146, che riprende – come notato da Ernest Hoepffner – una porzione dei Vers d’Amours di Nevelot Amion, a loro volta tributari di quelli di Adam. In merito alla presenza di quest’ultimo nello stesso manoscritto, viene riportata, inoltre, l’interessante informazione, già nota ma meritevole senz’altro di approfondimento, che alcuni versi del Congé di Adam si trovano trascritti al termine della sezione di Lescurel (62v), ad opera di una mano diversa da quella del copista principale. Saltzstein affronta poi l’affascinante questione dell’influenza di Adam su Guillaume de Machaut, più volte sollevata dalla critica, soprattutto di parte musicologica. A fronte delle pochissime – in effetti quasi nulle: solo due refrains peraltro assai diffusi e alcune formule generiche – corrispondenze testuali e musicali, un legame diretto tra i rondeaux di Adam e le composizioni polifoniche di Machaut è difficile da sostenere. La consonanza tra i due si può misurare semmai su un piano socio-culturale e ideale, in una comune postura autoriale, pur in epoche assai diverse, fondata sull’ostentata rivendicazione della maestria della parola e della musica. Tale, in definitiva, l’interpretazione che viene proposta della «clerkliness» di Adam, questione centrale in molti dei capitoli del volume, ribadendo l’esigenza di leggere la sua opera «in context», proprio come invita a fare la testimonianza di W. In questa direzione, l’autrice auspica che l’intera raccolta da lei curata possa fungere da guida.

A mo’ di conclusione

28Forse l’aver percorso nel dettaglio gli argomenti presentati in ogni capitolo di questo ricco volume, soppesandone di volta in volta pertinenza e rilevanza, può dispensare dal proporre una valutazione complessiva del volume stesso, operazione che la diversità degli approcci, degli intenti e degli esiti dei singoli contributi renderebbe particolarmente ardua. Certo, se lo scopo di MCWAH era quello di affrontare l’opera di Adam in un’ottica intertestuale e interdisciplinare che tenesse conto della rilevanza del contesto sociale, culturale e letterario, a fronte di una bibliografia pregressa che avrebbe coltivato tale prospettiva in maniera insoddisfacente – così la curatrice nell’introduzione –, non si può dire che tale scopo sia stato davvero raggiunto. Condivisibile o meno che fosse il presupposto, fondato su una conoscenza solo parziale dello stato dell’arte, la stessa chiusura della visuale critica nei confronti del settore degli studi filologici ha inevitabilmente pregiudicato la possibilità di giungere alla sintesi interdisciplinare auspicata. D’altra parte, va pure ricordato come, specularmente, i filologi romanzi solo molto di rado abbiano ritenuto opportuno confrontarsi con il punto di vista dei musicologi, al punto da trascurare quasi del tutto, lasciandoli alle esclusive cure di questi ultimi, i componimenti in cui l’elemento musicale è predominante, come quelli polifonici. L’auspicio, per concludere, è che i diversi specialismi che si interessano a Adam de la Halle possano finalmente dialogare in maniera costruttiva, per contribuire al progresso di una ricerca che dovrà essere comune e coerente su una delle personalità poetiche e musicali più interessanti del Medioevo. E che questa troppo lunga recensione possa costituire un modestissimo ma non inutile passo in tale direzione.

Notes

1 La ricerca in OPAC è stata fatta il 6 marzo 2024.

2 «Companion», in Cambridge Dictionary online.

3 Musical Culture in the World of Adam de la Halle, ed. Jennifer Saltzstein, Leiden-Boston, Brill, 2019 [«Brill’s Companion to the Musical Culture in Medieval and Early Modern Europe», n° 3].

4 La ricerca in rete ha restituito (al 6 marzo 2024) solo tre recensioni, tutte a cura di autori musicologi e anglofoni (Elizabeth E. Leech in Early Music, 47/4, 2019, pp. 582-584; Joseph W. Mason in Music and Letters, 101/1, 2020, pp. 135-138; Catherine A. Bradley in Revue de Musicologie, 106/2, 2020, pp. 491-494). Quanto alle citazioni dirette, quella che si trova nell'articolo di Nicholas Bleisch pubblicato nella sezione monografica di questo stesso fascicolo di Textus&Musica è, a mia conoscenza, una delle prime.

5 Il riferimento è all’opera monumentale della studiosa: Alison Stones, Manuscripts Illuminated in France: Gothic Manuscripts 1260–1320, 4 voll., London-Turnhout, Harvey Miller-Brepols, 2013-2014.

6 Dalla tesi di dottorato (John D. Haines, The Musicography of the Ms. du Roi, Ph.D. dissertation, University of Toronto, 1998) al più recente saggio Id., «The Songbook for William of Villehardouin, Prince of Morea (Paris, Bibliotheque nationale de France, fonds francais 844): A Crucial Case in the History of Vernacular Song Collections», Viewing the Morea: Land and People in the Late Medieval Peloponnese, ed. Sharon E.J. Gerstel, Washington D.C., Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 2013, pp. 57-109.

7 Cfr. il cap. 3 di Judith A. Peraino, Giving Voice to Love. Song and Self-Expression from the Troubadours to Guillaume de Machaut, Oxford-New York, Oxford University Press, 2011, in part. pp. 135-154.

8 Elizabeth Aubrey, «Sources, MS, §III. Secular Monophony, 4. French», Grove Music Online, Oxford University Press, 2007-2016.

9 Per la preferenza da accordare alla forma «Nevelot» piuttosto che al vulgato «Nevelon», rimando a Adam de la Halle – Nevelot Amion, Les Vers d’Amours d’Arras, ed. Federico Saviotti, Paris, Champion, 2018, pp. 33-34.

10 Gli stessi materiali sono disponibili nel fondamentale database Refrain. Music, Poetry, Citation: the Medieval Refrain, a cura di Mark Everist e della stessa Ibos-Augé.

11 Mi riferisco a Gioia Zaganelli, «Amors e clergie in Adam de la Halle», Spicilegio moderno, 7, 1977, pp. 22-35, e Ead., Aimer, sofrir, joïr: i paradigmi della soggettività nella lirica francese dei secoli XII e XIII, Firenze, La Nuova Italia, 1982.

12 Per il rapporto tra monodia e polifonia nell’opera lirica di questo troviero, si veda Gaël Saint-Cricq, «Genre, Attribution and Authorship: Robert de Reims vs “Robert de Rains”», Early Music History, 38, 2019, pp. 141-213. Gli argomenti sono ripresi nella recente edizione Robert de Reims, Songs and Motets, ed. Eglal Doss-Quinby, Gaël Saint-Cricq, Samuel N. Rosenberg, University Park (PA), The Pennsylvania State University Press, 2020, pp. 4 e 22-26.

13 Per l’idea, desunta da Carol Symes, che la sezione adamiana in W comprenda materialmente – e si concluda con – il Jeu de Saint Nicolas che segue il gruppo delle opere di Adam, si veda infra.

14 Sylvia Huot, From Song to Book: The Poetics of Writing in Old French Lyric and Lyrical Narrative Poetry, Ithaca-London, Cornell University Press, 1987, pp. 64-74. Ho approfondito e puntualizzato alcuni aspetti di tale interpretazione in un articolo (Federico Saviotti, «Precisazioni per una rilettura del ms. BnF, fr. 25566 [canzoniere francese W]», Medioevo romanzo, 35, 2011, pp. 262-284), citato nel volume da Stones.

15 Ben prima di C. Symes, citata come auctoritas, la fragilità di questa ipotesi avanzata da Fabienne Gégou era stata messa in luce da Norman M. Cartier, «La mort d’Adam le Bossu», Romania, 89, 1968, pp. 116-124.

16 Cfr. Saviotti, «Precisazioni per una rilettura», p. 269.

17 «Haro! or Hareu! This would be the very cry uttered by Robin in Adam’s musical, when he is attacked by the Knight who has tried to rape his fiancée: Hareu, Diex! Hareu, omne gent! (v. 315). Adam’s audience cannot have failed to notice that the play’s protagonist was calling (comically?) for a popular uprising of the sort that was making Charles sit uneasily on his throne. Later in the play, Marion and her friends even inaugurate a new regime by crowning their own “King”» (p. 48).

18 Cfr. per un inquadramento di questo tipo di testo, sfuggente a una definizione di genere, Jacqueline Cerquiglini, «Le clerc et l’écriture: le voir dit de Guillaume de Machaut et la définition du dit», Literatur in der Gesellschaft des Spätmittelalters, ed. Hans Ulrich Gumbrecht, Heidelberg, Winter, 1980, pp. 151-168.

19 Per la discussione relativa alle illustrazioni, si vedano gli interventi a cura di Maria Grazia Albertini Ottolenghi (a cui si deve anche la descrizione puntuale di tutte le miniature del codice) e Maria Luisa Meneghetti in Il manoscritto Saibante-Hamilton 390, ed. Maria Luisa Meneghetti, Roma, Salerno, 2019.

20 Cfr. Saviotti, «Precisazioni per una rilettura», p. 268.

21 Per l’edizione si veda ora Federico Saviotti, «Il Dit des quatres Evangelistres», Rivista di storia e letteratura religiosa, 49/1, 2013, pp. 201-216.

22 Solo temperata dall’affermazione che «Gröber and Schwan’s notion of a Liederbuch should not be lampooned as a single Urtext. Rather, the Liederbuch concept was intended as a shorthand for multiple original copies» (p. 117). Al di là della forma in cui è possibile per noi conoscerlo, l’immagine del Liederbuch che viene suggerita pare in effetti più in linea con l’idea della testualità medievale promossa dalla New Philology che con quella della critica positivista (e neo-lachmanniana).

23 d’Arco Silvio Avalle, I manoscritti della letteratura medievale in lingua d’oc, ed. Lino Leonardi, Torino, Einaudi, 19932 (1a ed. La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, 1961). Si trova invece citata l’edizione critica di Peire Vidal a cura dello stesso Avalle, a proposito del supposto Liederbuch di questo trovatore.

24 Segnaliamo su tutti, ma senza pretesa di esaustività, quelli di Maria Carla Battelli, Luca Barbieri, Dan Octavian Cepraga, Luciano Formisano, Maria Sofia Lannutti e Stefano Resconi.

25 Ma la critica ha avanzato anche l’ipotesi che l’opera potesse essere in latino. Cfr. le nn. di commento all’edizione dell’Anglo-Norman Text Society: L’Estoire des Engleis by Geffrei Gaimar, ed. Alexander Bell, Oxford, Blackwell, 1960, p. 278.

26 Tale ipotesi è confutata, sul piano storico, da Vladimir Agrigoroaei, «Le Manuscrit du Roi, un chansonnier que le prince de Morée Guillaume de Villehardouin n’a sans doute jamais connu», Textus&Musica, 6, 2022, 14 pp. Per una revisione complessiva delle ipotesi sull’origine di M, si veda l’articolo citato alla n. seguente.

27 Cfr. Federico Saviotti, «La scripta du Chansonnier du roi: nouvelles données pour l’étude de la genèse du recueil et de ses sources», Carte Romanze, 11/1, 2023, pp. 123-161.

28 Ma cfr., per un’ipotesi diversa, Lucilla Spetia, «La lirica dei trovieri: nuove acquisizioni critiche», Critica del testo, 25/1, 2022, pp. 117-141, in part. pp. 131-132.

29 Sia permesso rimandare a Federico Saviotti, «Anomalie codicologiche e bibliografiche: le canzoni di Adam de la Halle e la loro singolare tradizione manoscritta», Critica del testo, 18/2 [Anomalie, residui, riusi, ed. Simone Marcenaro e Isabella Tomassetti, Roma, Viella], 2015, pp. 225-257, e alla bibliografia ivi citata.

30 Ma l’informazione circola correntemente negli ambienti della medievistica angloamericana: cfr. ad es. Christopher Callahan, «La tradition manuscrite et le rôle de la musique pour appréhender la personnalité poétique de Colin Muset», Les chansons de langue d’oil. L’art des trouvères, ed. Marie-Geneviève Grossel, Jean-Charles Herbin, Valenciennes, Presses Universitaires de Valenciennes, 2008, pp. 25-37, in part. p. 26, n. 5 (per cui si veda infra).

31 Roberto Crespo, «Il raggruppamento dei jeux-partis nei canzonieri A, a e b», Lyrique romane médiévale: la tradition des chansonniers. Actes du colloque de Liège, 1989, ed. Madeleine Tyssens, Liège, Bibliothèque de la Faculté de philosophie et lettres de l’Université de Liège, pp. 399-426.

32 Cfr. Gianluca Bocchino, Luca Gatti, «Per l’attribuzione di Compains Jehan, un gieu vous voel partir (Lkr 1,9)», Textus&Musica, 2, 2020, 30 pp.

33 Cfr. supra n. 29.

34 Cfr. Peraino, Giving Voice to Love, cap. 4 («The Hybrid Voice of the Monophonic Motet»). Una ricerca sul motet enté come forma costruita a partire da un refrain preesistente diviso in due parti e sottoposto a farcitura con un testo nuovo (ma non tutti i musicologi, a partire da Everist, condividono tale descrizione), volta all’edizione di tutti i testi a essa riconducibili, è attualmente in corso. Ne ho presentato i primi risultati in occasione di recenti convegni: «La forma poetico-musicale del motet enté nelle fonti medievali (ca. 1275-1325)» (convegno della Società italiana di Filologia Romanza: Metodi e reti per la filologia romanza, Università di Bari “Aldo Moro”, 20-22 settembre 2023); «L’édition d’un corpus lyrique ignoré: les motets entés entre musique et texte» (con Christelle Chaillou; convegno internazionale «Philologie et Musicologie»: L’édition des corpus chantés du Moyen Âge et de la Renaissance, hier aujourd’hui et demain, Université de Poitiers, 11-13 dicembre 2023); «Le refrain et son commentaire: pour une lecture du motet enté» (convegno della Société de Langues et Littératures médiévales d’oc et d’oïl: Le temps du commentaire. Du commentaire juxtaposé au commentaire simultané, Montpellier, Université Paul-Valéry, 25-27 gennaio 2024).

35 Cfr. Christelle Chaillou, Federico Saviotti, «Le virelai avant Machaut», attualmente in fase di peer-review.

36 Callahan, «La tradition manuscrite, p. 26, n. 5.

37 Pierre Bec, La lyrique française au Moyen Âge (XIIe-XIIIe siècles). Vol. 1: Études, Paris, Picard, 1977, pp. 228-233. L’impostazione rigidamente classificatoria di Bec si può considerare superata dai contributi più recenti. Cfr. in part.: The Old French Ballette: Oxford, Bodleian Library, MS Douce 308, ed. Eglal Doss-Quinby, Samuel N. Rosenberg, Elizabeth Aubrey, Genève, Droz, 2006, in part. p. XXXII; Stefano Asperti, «La sezione di balletes del canzoniere francese di Oxford», Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes (Université de Zurich, 6-11 avril 1992), ed. Gerold Hilty, Tübingen-Basel, Francke, 1993, t. V, pp. 13-27; Cristina Dusio, «Per una definizione tipologica delle ballettes del canzoniere francese I (Oxford, Bodleian Library, Douce 308)», Medioevo romanzo, 45/1, 2021, pp. 96-130.

38 Adam de la Halle, Teatro. La commedia di Robin e Marion. La Pergola, ed. Rosanna Brusegan, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 22-35.

39 Anna Kathryn Grau, Representation and Resistance: Female Vocality in Thirteenth-Century France, PhD dissertation, University of Pennsylvania, 2010.

40 Cfr. Chaillou, Saviotti, «Le virelai avant Machaut».

41 Cfr. ad es. Elizabeth E. Leech, «Adapting the motet(s)? The case of Hé bergier in Oxford MS Douce 308», Plainsong & Medieval Music, 28/2, 2019, pp. 143-157, e Robert de Reims, Songs and Motets, pp. 22-26.

Pour citer ce document

Par Federico Saviotti, «Adam de la Halle & Companions: a proposito di un libro recente», Textus & Musica [En ligne], Les numéros, 7 | 2023 - Performance of Medieval Monophony: Text and Image as Evidence for Musical Practice, Varia, Notes, mis à jour le : 29/10/2024, URL : https://textus-et-musica.edel.univ-poitiers.fr:443/textus-et-musica/index.php?id=2856.

Quelques mots à propos de :  Federico Saviotti

federico.saviotti@unipv.it

Federico Saviotti è ricercatore senior di Filologia e linguistica romanza presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Doctor europæus in Filologia romanza all’Università di Siena (2008), è stato per un triennio chercheur associé alla cattedra di «Littératures de la France médiévale» del Collège de France.

Specialista della lirica dei trovatori (Raimbaut e gli altri. Percorsi di identificazione nella lirica romanza del Medioevo, Pavia, Pavia Unive

...

Droits d'auteur

This is an Open Access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License CC BY-NC 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-nc/3.0/fr/) / Article distribué selon les termes de la licence Creative Commons CC BY-NC.3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-nc/3.0/fr/)