Un canzoniere straordinario ?
Appunti a margine di un libro recente sullo Chansonnier du Roi (con l’edizione delle sue «aggiunte»)

Par Federico Saviotti
Publication en ligne le 05 mai 2023

Résumé

The analytical review of a recently-published book on the Chansonnier du Roi (Paris, BnF, fr. 844) containing a new complete edition of its «additions» (Alexandros Maria Hatzikiriakos, Musiche da una corte effimera: lo Chansonnier du Roi (BnF f. fr. 844) e la Napoli dei primi angioini, Verona, Fiorini, 2020) is the occasion to point out some elements of this largely famous and studied songbook which still deserve appropriate philological scrutiny.

La disamina approfondita di una recente monografia sullo Chansonnier du Roi (Paris, BnF, fr. 844) con l’edizione completa delle sue «aggiunte» (Alexandros Maria Hatzikiriakos, Musiche da una corte effimera: lo Chansonnier du Roi (BnF f. fr. 844) e la Napoli dei primi angioini, Verona, Fiorini, 2020) fornisce l’occasione per segnalare alcuni aspetti della celeberrima e studiatissima silloge ancora meritevoli di un’indagine filologica adeguata.

Mots-Clés

Texte intégral

1Quasi in vista del centenario dell’opera di Louise e Jean Beck1 che inaugurò un decennio di studi sullo Chansonnier (o Manuscrit) du Roi (Paris, BnF, fr. 844; d’ora innanzi: ChR), le ricerche su questa silloge lirica, tra le più interessanti per la varietà dei contenuti testuali e musicali2 e la complessa ed enigmatica storia interna ed esterna, sono tornate da qualche tempo quantomai in auge. La musicologia, in particolare nord-americana, vi gioca una parte preponderante, a partire almeno dalle tesi di dottorato, seguite da ulteriori contributi di rilievo, di John Haines e Judith Peraino: il primo interessato soprattutto a studiare il codice nel suo complesso, dalla sua costituzione materiale alla sua committenza3, la seconda focalizzata sui componimenti sparsamente trascritti negli spazi lasciati liberi e su qualche carta inserita ad hoc a poca distanza dall’allestimento del canzoniere (verosimilmente entro il primo quarto del xiv secolo)4. Menzioneremo d’ora in avanti questi componimenti come «aggiunte»: si tratta in massima parte di specimina di generi musico-testuali minoritari se non assenti nella silloge originaria (descortz e dansas in lingua d’oc, rondeaux, motets entés e lais in lingua d’oil), che vedono «la prevalenza, anche strutturale, dell’aspetto musicale su quello metrico-poetico»5 e possono essere considerati un trait d’union tra le forme liriche tradizionali e predominanti fino alla metà del Duecento e quelle trionfanti nel Trecento.

2Anche la filologia romanza non ha mancato di rivolgere un’attenzione particolare allo ChR, soffermandosi in specie su aspetti quali: le strategie di compilazione e le fonti, nell’ambito di un esame a più ampio spettro dei contenuti dei canzonieri antico-francesi (ad opera specialmente di Maria Carla Battelli6, Dan Octavian Cepraga7, Maria Sofia Lannutti8) o di una disamina specifica di quelli del codice in questione (Stefano Resconi9); la struttura materiale "disordinata" del libro, dovuta tanto alla sua genesi quanto alla successiva circolazione (ancora Battelli)10; le aggiunte e il loro contesto di provenienza (Stefano Asperti)11. Non ha forse giovato al progresso della conoscenza sull’oggetto in questione, innegabilmente meritevole di un’indagine interdisciplinare, la relativa indifferenza quando non ignoranza reciproca dei due principali specialismi coinvolti (ma soprattutto di parte musicologica). Tuttavia, qualcosa è cambiato negli ultimissimi anni, che hanno visto dedicarsi al canzoniere singoli studiosi e gruppi di ricerca convinti della necessità di un approccio multiprospettico. Sia consentito ricordare l’impegno in questo senso da parte di Christelle Chaillou e di chi scrive: dopo un primo saggio di applicazione di tale approccio al corpus delle cinque dansas occitane aggiunte allo ChR, presentato in occasione del Congresso «Filologia e Musicologia» di Saint-Guilhem-le-Désert (2017)12, un workshop interdisciplinare organizzato presso l’Institut français de Rome (2018)13 che riuniva giovani specialisti (filologi, musicologi, ma pure storici) al fine di iniziare un lavoro d’équipe sul canzoniere conduceva all’ideazione del progetto MaRITeM. Manuscrit du Roi, Paris BnF fr. 844. Image, texte, musique (URL: https://maritem.hypotheses.org/), finanziato dall’ANR e attualmente in corso di svolgimento (2019-2024). Lo scopo principale di MaRITeM è quello di produrre un’edizione digitale multimediale del canzoniere concepita come largamente sperimentale: innovativi sono infatti tanto il formato scelto per l’edizione quanto la metodologia utilizzata, che include l’uso di software di trascrizione automatica del manoscritto14. Inoltre, paradossalmente ben oltre le intenzioni di Chaillou e mie, anche la rivista Textus&Musica è diventata una delle sedi principali del dibattito interdisciplinare, ora più vivace che mai, sullo Chansonnier du Roi: gli articoli di Francesco Carapezza15 e Christelle Cazaux e Luca Gatti16 si occupano di singoli componimenti tràditi anche dallo Chansonnier de Noailles (Paris, BnF, fr. 12615, siglato T); il contributo di Vladimir Agrigoroaei17 confuta dal punto di vista storico l’ipotesi di Haines relativa al ruolo di Guillaume de Villehardouin nella genesi del canzoniere e al legame di questo con la Morea, di cui Villehardouin era principe (si ricordi che un prince de la mouree è il primo dei trovieri repertoriati nella silloge)18.

3In tale rigoglio di ricerche e pubblicazioni scientifiche si colloca il volume, elegantemente pubblicato per i tipi di Fiorini nella collana «Medioevi», di Alexandros Maria Hatzikiriakos (d’ora innanzi: AMH), musicologo dotato di evidenti interesse ed esperienza anche in altri settori degli studi medievali, come giustamente sottolineato da Vincenzo Borghetti nella sua premessa. Il titolo, Musiche da una corte effimera: lo Chansonnier du Roi (BnF f. fr. 844) e la Napoli dei primi angioini19, non rende del tutto giustizia a un progetto ambizioso. Lo studio delle 44 aggiunte, per la prima volta edite nel loro complesso e nella loro unitarietà di composizioni poetico-musicali e ricondotte al loro contesto, quella «corte effimera» riunita attorno ai primi sovrani angioini di Napoli (Carlo I, dal 1265, e suo figlio Carlo II, morto nel 1309), è preceduto infatti da una distesa ricognizione relativa alla silloge originaria, che occupa la prima parte del volume. In un centinaio di pagine trovano posto uno studio codicologico approfondito e un tentativo di ricostruzione di come si dovette formare la raccolta. In tal senso, il volume, anticipato da un articolo uscito nel 2018 (incentrato in particolare sulla contaminazione tra fonti di lirica e di polifonia a monte della tradizione di alcuni componimenti tràditi in sezioni diverse del canzoniere)20, rappresenta l’esito ultimo – ancorché provvisorio e perfettibile, come onestamente riconosciuto dall’autore – di una tesi di dottorato dedicata sul canzoniere nel suo complesso, sostenuta nel 201521. D’altra parte, sottolinea AMH,

sarebbe impossibile, o quantomeno poco fruttuoso, affrontare lo studio delle addizioni [ossia le «aggiunte», calco di additions in uso presso la critica anglosassone] come oggetti indipendenti dal codice ospite, senza cercare di comprendere la dialettica che intercorre tra il manoscritto, come organismo librario, e le successive aggiunte (p. 19).

4Nel complesso, non è quindi fuori luogo considerare Musiche da una corte effimera come una vera e propria monografia sullo ChR, sulla sua genesi e sulla sua storia, che si pone a valle di quasi un secolo di studi critici relativi a questi stessi aspetti e ne mette a profitto le acquisizioni in un nuovo tentativo di sintesi dichiaratamente interdisciplinare.

5L’impresa è, come detto, ambiziosa e decisamente benemerita sul piano scientifico; i risultati sono però piuttosto diseguali. Se, infatti, la trattazione delle aggiunte è di grande interesse e propone diverse novità significative, l’interpretazione che viene proposta dei dati disponibili, soprattutto per quanto concerne la silloge originaria, risulta non sempre condivisibile. Nuocciono, in particolare, alla solidità di impianto dell’opera alcune impostazioni metodologicamente discutibili, alcuni travisamenti nella lettura di elementi testuali e paratestuali e l’assenza di un rilievo linguistico. Per ovvie ragioni di competenza, proverò nei paragrafi successivi a dare conto dei contenuti del volume in un’ottica essenzialmente filologica, lasciando com’è naturale la valutazione della congruenza degli aspetti musicologici agli specialisti del campo.

Per un inquadramento generale: ipotesi e incertezze

6Prima di dedicare i paragrafi seguenti alle tre diverse parti in cui è suddivisa l’opera, affronto qui la questione generale dell’inquadramento storico-geografico del canzoniere, anche in rapporto con le ipotesi avanzate dalla critica precedente, non sempre criticamente discusse nel volume. È questo il caso, macroscopico, della localizzazione ad Arras del manufatto originario, suggerita da diversi studiosi sulla base di elementi di ordine e di peso diverso, che costituisce per certi versi il punto di partenza e il punto di arrivo del discorso. Ora, pur costituendo quasi una vulgata negli studi sullo ChR, l’ipotesi di una genesi strettamente artesiana della raccolta meriterebbe, a mio avviso, essere vagliata con attenzione22. Gli indizi, rappresentati in primis dalla cospicua presenza di autori di Arras, infatti, non costituiscono a rigore una prova, anche considerata l’importanza assoluta della produzione poetica arrageoise del Duecento. Sempre su base contenutistica, tra l’altro, non sono mancati studiosi che hanno evocato possibili luoghi d’origine diversi (ad es. la Champagne, dal momento che i trovieri rappresentati nella prima sezione del canzoniere sono in maggioranza di provenienza champenoise)23.

7Lo stesso AMH, alla fine del capitolo dedicato alla costituzione del canzoniere (pp. 123-124), si sofferma senza confutarla nella sostanza sulla proposta moreota di Haines, accostandola ad altre inedite possibilità, tanto sul luogo d’origine della raccolta, quanto sul suo committente. I nomi che vengono evocati sono quelli di Roberto conte d’Artois, fratello di Carlo d'Angiò, del conte di Fiandra Gui de Dampierre, del duca di Brabante Enrico III (per cui si veda il paragrafo successivo), che figura altresì come troviero nella raccolta. La conclusione dell’autore – «con i dati in nostro possesso oggi, qualsiasi teoria riguardo a un committente rimane ipotetica, e come tale va considerata» (p. 124) – suona incongrua, a causa dell’uso che viene fatto dell'aggettivo «ipotetico», un termine tecnico della ricerca scientifica (e filologica), come sinonimo di «incerto». Il problema non è tanto l’impossibilità di dimostrare con certezza l’una o l’altra delle diverse teorie relative al committente (o al luogo di origine) del codice, ma semmai che le identificazioni del committente avanzate da AMH e da chi l’ha preceduto non paiono basarsi su evidenze positive, bensì su inferenze a partire da indizi piuttosto labili. Ad esempio: un personaggio storico noto ricorre (per nome o addirittura soltanto per titolo) tra i trovieri repertoriati o tra i loro destinatari, ergo tale personaggio dovrà essere il committente (Carlo d’Angiò e il principe di Morea per i Beck e Haines), oppure, come nel caso delle nuove proposte di AMH:

alcuni elementi (tra i molti) del codice paiono rimandare a un dato luogo
la raffinatezza del manufatto indica una committenza altolocata

+
=

il committente dovrà essere la persona più in vista di detto luogo
(Enrico di Brabante, che ha il vantaggio di essere pure troviero rappresentato nella silloge, Roberto d’Artois oppure Gui de Dampierre).

8Un tale approccio, che pone l’accento sull’incerto laddove mancano solidi argomenti per avanzare autentiche ipotesi, dovrebbe a mio avviso essere accantonato. Se proporre una rassegna dei possibili committenti senza discutere del grado di probabilità effettivo di ciascuna proposta non sembra contribuire ad avvicinarci alla comprensione storica del canzoniere, potrebbe forse essere scientificamente più proficuo riconoscere che l’oscurità delle origini accomuna lo ChR alla stragrande maggioranza delle altre sillogi liriche romanze, di cui è la norma che si ignorino committente e luogo e data esatti di confezione.

Parte I: il canzoniere e la sua compilazione

9Nella Parte I (Lo «Chansonnier du Roi») si fa apprezzare in primis l’approfondita trattazione degli aspetti codicologici e paleografici che, benché tributaria in buona parte delle messe a punto di studiosi precedenti, presenta, per la prima volta dopo la monografia dei Beck, un quadro complessivo dell’aspetto materiale del codice, aggiungendo anche alcuni elementi di novità. Dal punto di vista codicologico, la ricostruzione e le interpretazioni delle deviazioni rispetto al progetto originario a partire dal rapporto tra contenuto della tavola antica (Mi) e contenuto del codice ripropongono inevitabilmente i solidi argomenti di Battelli (si vedano in part. il paragrafo in cui viene data la descrizione della «fascicolazione allo stato attuale», pp. 35-38, e le pp. 105-109). Interessante è la considerazione, ribadita in punti diversi dell’opera (p. 23, 26, 105) che il disordine strutturale dell’organismo così come lo si trova rilegato a partire dall’Ottocento derivi dal fatto, evidentemente legato all’incompiutezza del manufatto, che i fascicoli non dovevano essere ancora cuciti tra loro ai tempi della sua prima circolazione24. Sul versante paleografico, è di particolare rilievo la minuziosa disamina delle diverse mani responsabili delle aggiunte, che tiene conto della distinzione proposta con parziali divergenze (soprattutto relative all’eventualità che gli scribi siano o meno responsabili della copia congiunta di musica e testo per una stessa composizione) da Haines e Peraino, ma ne approfondisce e sviluppa la descrizione. Questa, a tratti decisamente tecnica, appare tanto più meritoria se si considera che l’autore non dichiara di fondarsi sull’expertise di specialisti della materia: il nome di Stefano Palmieri, una delle principali auctoritates per lo studio della cancelleria angioina di Napoli, è citato soltanto per il confronto di alcune delle grafie più recenti con quelle che si trovano nei registri di tale cancelleria, elemento coerente con la tesi partenopea. Se non viene menzionata nello specifico la proposta di Peraino di considerare italiane (o del Midi) alcune delle mani responsabili della trascrizione di aggiunte francesi (ad es. il motet enté VIII e la canzone XXXVIa)25, è invece ripresa e ribadita l’ipotesi di Haines che sia italiana la mano che ricopia il Liederbuch di Thibaut de Champagne (Mt)26; sarebbe però stato auspicabile che tale dato, potenzialmente rilevante per la ricostruzione di una delle fasi di agglutinazione della raccolta, venisse discusso e possibilmente corroborato dall’analisi linguistica (per cui si veda infra). Tornando alle aggiunte, se il criterio di individuazione su base paleografica di una cronologia («interventi più antichi s[o]no quelli che presentano un maggiore atteggiamento imitativo rispetto al corpus principale, […] posteriori quelli che mostrano un carattere più avventizio», p. 30) non si può dire innovativo27 ed è forse di per sé opinabile (una maggiore corsività non indica ipso facto recenziorità, ma occorre valutare caso per caso), è senza dubbio fruttuoso il raggruppamento, sulla stessa base, di clusters di interventi caratterizzati da uno stesso atteggiamento nei confronti del corpus originario (utilizzo degli spazi e dei righi già tracciati, affinità a livello grafico e notazionale, etc.), soprattutto laddove si tratti di componimenti di genere e lingua differenti: si possono citare ad es. il gruppo occitano di tre descortz e una dansa e i due lais francesi, tra le aggiunte più “formali”, accomunate anche dal riferimento diretto a Carlo d’Angiò (·l reys Karles in BdT 244.1a, li prinches de Terre de Labour in RS. 165a). Tali dati verranno in effetti messi al servizio dell’interpretazione complessiva delle aggiunte, proposta nella seconda parte del volume.

10L’«inedita tavola critica dei contenuti dell’intero codice» (p. 19), che occupa le pp. 40-101, è un utilissimo strumento per orientarsi tra i contenuti del canzoniere: per ogni componimento sono riportate tutte le informazioni necessarie per situarlo nel codice (numero di fascicolo e carta, rubrica, incipit28) e nel repertorio di appartenenza (numero di RS29, Linker30, VdB31 o Repertorium di Ludwig32 a seconda del genere, nome dell’autore laddove noto, eventualmente anche in disaccordo con quello espresso dalla rubrica), oltre a una sintesi delle risultanze dello studio paleografico su testo e musica (mano di copia, tipo di notazione musicale)33. L’ulteriore segnalazione dell’eventuale presenza – o assenza per guasto materiale – di iniziali miniate, oltre a dimostrare un’attenzione non scontata per ogni aspetto del canzoniere in quanto libro, testimonia dell’interesse dell’autore per gli aspetti storico-artistici, poco considerati in generale dalla critica tanto musicologica quanto filologica al di là del discorso sulla «illustration héraldique»34. Tali aspetti sono minutamente affrontati in due punti diversi del volume. Nell’ambito della descrizione analitica del codice (pp. 26-28), due paragrafi, dedicati l’uno ai «capilettera con figura d’inizio sezione», l’altro alle «iniziali di testo» e interne, colorate e/o filigranate, si concentrano, sulla scorta degli studi di Alison Stones, soprattutto sugli elementi stilistici e decorativi, citando en passant il «progetto iconografico che riflette la gerarchia sociale dell’autore», per cui lo ChR si può avvicinare ai canzonieri artesiani A (Arras, Médiathèque municipale, 657) e a (Città del Vaticano, BAV, Reg. lat. 1490). L’esame delle decorazioni, per cui si riporta anche una comunicazione privata di Patricia Stirnemann, suggerirebbe invece un’affinità con codici confezionati «nella vicina Cambrai»: vicina sì (una quarantina di km), ma dotata di istituzioni anche culturali autonome rispetto a quelle di Arras. L’ipotesi che lo ChR possa in effetti essere stato illustrato da (almeno) un artista di Cambrai è interessante – lo stile del corredo decorativo non pare in effetti assimilabile a quello di A e a – e avrebbe meritato di essere sviluppata in misura maggiore, anche se potenzialmente destabilizzante rispetto alla tesi dell’origine artesiana (per quanto, come riconosce lo stesso autore, un codice poteva ben essere decorato altrove rispetto a dove era stato trascritto e – ancor più – un artista poteva lavorare al di fuori del proprio luogo d’origine). Peraltro, quando l’argomento iconografico è ripreso e sviluppato, laddove si tratta dell’ordinamento del canzoniere (pp. 113-115) fondato almeno in parte sulla gerarchia sociale dei trovieri, di cui è data una rappresentazione tra l’araldico (per i nobili dei primi fascicoli) e il professionale (per i chierici e i borghesi), viene correttamente segnalato che il tipo di raffigurazione proposta per gli autori in ChR, A e a è lungi dall’essere esclusiva di questi canzonieri, o della miniatura artesiana, dal momento che si ritrova in monumenti funerari coevi anche di altre zone della Francia. Pare invece ingiustificato il riferimento al Brabante che compare sia nella già citata nota di p. 27 sia a p. 124, dove si discute dei possibili committenti proponendo tra gli altri il nome del duca Enrico III: al contrario di quanto viene affermato, non si tratta di «zona limitrofa all’Artois» (il ducato di Brabante è separato dall’Artois dalla contea di Hainaut, feudo imperiale controllato nella seconda metà del xiii secolo prima dai Dampierre conti di Fiandra, poi dagli Avesnes loro consanguinei e rivali) e Cambrai non ne fa parte (il Cambrésis rientra piuttosto nei domini dei conti di Hainaut).

11Geograficamente approssimativa è anche la localizzazione di alcuni elementi linguistici, presentati talvolta come «artesiani», talaltra come «piccardo-valloni» o «nord-orientali», senza apprezzabili distinzioni referenziali, nell’ambito di una trattazione troppo succinta perché se ne possano trarre indicazioni significative. Manca, infatti, quasi del tutto l’analisi della scripta, in particolare di quella del copista principale (mano 1), «responsabile della tavola e della maggior parte del testo» (p. 28); le uniche annotazioni in merito, a margine del discorso sulle rubriche e sulla mano del secondo copista (mano 2, «che interviene in maniera sporadica in alcuni luoghi del manoscritto», p. 29), si limitano alla menzione di pochissime forme senza commento :

Nonostante la scripta principale del testo risulti grossomodo priva di marche linguistiche locali, nelle rubriche appaiono alcuni tratti piccardo-valloni come ad es. Iakes, Willaumes, Biethune (p. 28).

La scripta [della mano 2] presenta poi alcuni tratti grafici piccardi, come l’uso sistematico di k per la velare sorda, tratto quasi del tutto assente nel copista principale (p. 29).

12Queste affermazioni, sprovviste di riferimenti bibliografici (la stessa pur interdisciplinare Bibliografia del volume è priva di titoli di argomento linguistico), necessitano a mio avviso di alcuni precisazioni, che si possono giovare dello studio scriptologico esaustivo da me condotto35.

13Per prima cosa, l’uso della congiunzione concessiva nella prima citazione non pare opportuno, dal momento che, contrariamente a quanto si afferma poco prima, il copista delle rubriche non è «plausibilmente» lo stesso del testo, tanto nella tavola quanto nel corpo del canzoniere: proprio l’esame della scripta permette di stabilirlo, al di là di una certa affinità (che non è però identità) dei tratti grafici delle due mani. Peraltro, se lo scriba fosse il medesimo, la discrepanza tra la scripta del testo e quella delle rubriche meriterebbe un tentativo di spiegazione.

14In secondo luogo, l’assenza nei testi copiati dalla mano 1 di evidenti «marche linguistiche locali» è un fatto rilevato dalla critica filologica più avvertita (si veda in particolare la disamina di Anna Maria Raugei a margine dell’edizione di Gautier de Dargies)36. Si può aggiungere che tale assenza, in contrasto con la patina più o meno spiccatamente settentrionale riscontrabile nei canzonieri sicuramente artesiani del gruppo Si di Schwan37 (A, a e soprattutto T, per alcuni aspetti gemello di M), pare invece accomunare M ai principali esponenti del gruppo Sii38, dotati di una scripta meno connotata in senso regionale, alcuni dei quali tendenzialmente attribuiti a una committenza parimenti altolocata.

15Infine, la scelta delle forme che dovrebbero esemplificare il carattere regionale della scripta delle rubriche non è particolarmente felice. Due su tre (Iakes, Willaumes), infatti, attestano tratti grafici non necessariamente di rilevanza fonetica, la cui diffusione è ben più ampia di quella indicata: l’uso di ‹k› per la velare sorda e quello di ‹w› per la bilabiale di origine germanica. Il primo dei due, peraltro, ritorna anche come unico elemento per la caratterizzazione geolinguistica della mano 2 e, insieme al digramma ‹ch› per la resa dell’affricata postalveolare sorda, della mano A2 delle aggiunte. Il solo tratto identificabile con un buon grado di sicurezza come «piccardo-vallone», e in effetti decisamente più diffuso tra Vallonia, Fiandra e Hainaut (dunque Cambrai, se si volesse percorrere tale pista) che in Artois, è il dittongamento in sede protonica di «Biethune»39. L’autore non spiega, però, quale possa essere l’interesse di una definizione anche «vallona», della scripta: come accennato supra, l’impressione è che l’etichetta sia usata come mero sinonimo di «artesiana» (in linea, cioè, con la localizzazione accettata dell’origine del codice) o, più semplicemente, «piccarda» (come nella seconda citazione)40. Preciso, ad ogni buon conto, che il carattere almeno genericamente piccardo della scripta delle rubriche attribuite da AMH alla mano 1 (ma cfr. supra) pare accertato dalla presenza di forme come canchon (< CANTIONE), con tratti quali C (+ A) > /k/ e T + j > ‹ch› (esito postalveolare)41, e le (< ILLA) per l’articolo determinativo femminile42.

16Al di là delle minute inesattezze o lacune, lo scarso peso attribuito all'aspetto linguistico inficia purtroppo non solo quanto viene sostenuto sulla genesi del canzoniere – rispetto alla quale la localizzazione geolinguistica dei copisti e, per via di analisi stratigrafica, delle fonti può rivelarsi un argomento di peso: si è già detto supra della mancata discussione della presumibile origine italiana del copista di Mt – ma anche l’affidabilità dell’edizione delle aggiunte (come dirò nell’ultimo paragrafo) e dell’interpretazione di testi e paratesti del codice. Un paio di esempi paiono particolarmente significativi in questo senso. Prima di tutto, laddove si parla (alle pp. 32-33 e poi nuovamente alle pp. 169-172) delle estampies e danses strumentali, si dà conto del fatto che le prime rubriche (cc. 103vb-104r) utilizzino sistematicamente l’aggettivo royal/roial mentre le ultime (c. 104v) la forma real, ma non se ne rileva l’alterità linguistica – francese la prima, occitana la seconda43 – né, di conseguenza, si fornisce un tentativo di spiegazione di tale alterità (non è perspicuo il senso dell’ipotesi, solo ventilata, di possibili «rubriche […] date per congettura» piuttosto che riproducenti il medesimo antigrafo). In tal modo, va perduto un tassello forse significativo per la ricostruzione del rapporto tra le aggiunte, se si considera che la mano che trascrive la forma occitana real viene identificata con quella (A20) responsabile della copia di altre aggiunte francesi44. Ancora, laddove vengono esaminate le discrepanze tra le sezioni autoriali previste nella tavola antica e quelle effettivamente presenti nel canzoniere (p. 109), si trova l'affermazione che il «Jehan Frumaus» di Mi sarebbe stato «letteralmente sdoppiato in due diversi autori», «Jehans Fremaus de Lille» e «Jehan Frumaus li couronnee» (così le rubriche, riportate nella tabella alla p. precedente). Dal momento che l’argomento del presunto «sdoppiamento attributivo» è ripreso poco oltre e il fenomeno dubitativamente catalogato come un «anomalo caso di omonimia» (p. 112) che il copista avrebbe voluto disambiguare, non deve trattarsi di un lapsus, ma di un vero e proprio fraintendimento del dato linguistico: la tendenza alla chiusura in [y] di [e] in sede protonica davanti a consonante labiale è attiva in francese almeno dal xii secolo45 e nel xiii le oscillazioni (almeno a livello grafico) sono frequenti. Pertanto, i due non potranno che essere lo stesso Jehan di cui la rubrica specifica in un caso il legame con la città di Lille, nell’altro il fatto che la canzone in questione sia couronnée, cioè vincitrice di corona in un agone poetico: è da escludere, infatti, che la forma femminile dell’aggettivo si riferisca al poeta46. Non risolve l’incongruenza il fatto che, poco oltre, venga menzionata anche l’eventualità che si possa trattare in effetti di un unico troviero e che il copista abbia voluto semplicemente «fornire ulteriori informazioni riguardo alla qualità dei testi copiati».

17Tornando al piano generale dell’opera, il capitolo intitolato Il canzoniere (pp. 102-125) contiene dunque, sulla base della descrizione analitica del codice fornita nel precedente (Il codice, pp. 23-38), un tentativo di ricostruzione e interpretazione del libro come fu concepito e diversamente confezionato, prima dell’introduzione delle aggiunte. Tale tentativo, pur fondato su un’ottima conoscenza degli studi pregressi, non si può considerare del tutto riuscito. Oltre alle ragioni di merito e metodo già evocate, è la stessa impostazione della questione generale affrontata nel capitolo a risultare discutibile. Una puntualizzazione preliminare, ripresa dalla critica recente, relativa all’ambiguità semantica del termine «canzoniere» nella storia della ricezione della poesia medievale (in uno spettro che va dal macrotesto lirico organizzato dalla volontà dell’autore, al codice contenente una raccolta di componimenti di qualsiasi entità e struttura), conduce a una disamina del problema dell’autorialità. Tale concetto viene sorprendentemente applicato all’eventuale intenzionalità di chi compilò o commissionò lo ChR, come si evince da formulazioni quali la seguente:

la questione del rapporto canzoniere [sic] e presunti o reali Autori/Auctoritates riguarda da vicino anche Roi. Infatti la critica, soprattutto quella di inizio Novecento [ma non solo, come si è detto], sembra quasi essere stata ossessionata dal dover trovare una precisa personalità a cui associare la compilazione del codice (p. 104).

18Al termine della rassegna dei contenuti e degli elementi paratestuali della silloge trovierica M, primo e più corposo nucleo dello ChR, un altro passaggio esplicita una conclusione del tutto coerente :

I dati qui raccolti e analizzati tradiscono la presenza di una narrativa molto esplicita e in un certo qual modo anche di una viva autorialità e se non si tratta della narrativa di un singolo autore, è innegabile la volontà di raccontare qualcosa. Non è quindi sicuramente possibile parlare di un canzoniere d’autore, ma di una raffinata antologia che mira a rappresentare, sotto una narrativa anche sociale, sia una visione feudale sia una visione borghese della cortesia, come praticata dai jongleurs e dai bourgeois d’Arras; °M47 quindi, a suo modo, è un canzoniere, ma d’autori [corsivo dell’autore] (p. 115).

19La lunghezza della citazione si giustifica con la rilevanza che tale conclusione, preparata fin dall’attacco di taglio teorico sopra ricordato, evidentemente riveste nell’economia dell’opera. Paiono, però, piuttosto evidenti tanto la fragilità dell’impostazione scelta, fondata su un’impropria applicazione del termine «autore» all’ignoto responsabile della confezione dello ChR, quanto l’esiguità delle risultanze. Non è chiaro, in primis, in che cosa consista la «viva autorialità» riscontrata, né che rapporto abbia con la «volontà di raccontare qualcosa». Inoltre, che non si tratti di un canzoniere d’autore ma di un’antologia informata ad alcuni principi compositivi forti è noto fin dai primi interventi della critica, che ha compiutamente sottolineato l’interesse a celebrare tanto la produzione dei trovieri aristocratici quanto di quelli borghesi (non solo artesiani, va aggiunto); peraltro, tale duplice interesse non è esclusivo di M, per quanto in esso si manifesti in termini particolarmente strutturati. La chiusa, infine, non risolve, bensì perpetua l’ambiguità semantica del termine «canzoniere», per ribadire quanto si può affermare della stragrande maggioranza delle sillogi liriche romanze medievali. Ecco, astraendo dal caso in specie, e riprendendo quanto già detto supra per la questione delle origini e della committenza, si ha l’impressione che, pur cercando di evitarlo, AMH finisca per riproporre un approccio non dissimile da quello di molti tra coloro che lo hanno preceduto: considerare lo CHR, a partire dalle indubbie peculiarità che ne contraddistinguono soprattutto la storia successiva (le aggiunte), un individuo eccezionale nel panorama della tradizione della lirica, meritevole pertanto di essere guardato con occhi diversi anche laddove le sue caratteristiche sono in linea con quelle di altri canzonieri.

20Nel dettaglio, mi permetto qualche appunto relativo a quanto viene detto, talvolta in maniera apodittica, su trovieri, testi e contesto. Alcune informazioni, di cui non è specificata la fonte, paiono necessitare di una rettifica. Tra queste, l’epiteto maistre anteposto al nome dell’autore in alcune rubriche non sarà «inteso come esperto di una professione» (p. 111) in uso per i trovieri borghesi. Si tratta bensì del corrente appellativo dei chierici: non a caso sappiamo da altre fonti che lo furono almeno Guillaume le Vinier, Simon d’Authie e Richart de Fournival, che il rubricatore definisce sistematicamente (anche in Mi) maistre. Ancora intorno a Guillaume le Vinier si concentrano alcune inesattezze storico-biografiche (pp. 113-114): morto nel 1245 (e non nel 1248), come attesta il Nécrologe de la Confrérie des bourgeois et des jongleurs d’Arras48, si ignora se sia mai stato Principe del Puy ed è da escludere che provenisse da «un’importante famiglia d’Arras particolarmente attiva nell’amministrazione cittadina, soprattutto nell’istituzione dello scabinato»49. Altre informazioni, pur di per sé corrette, sono usate in maniera opinabile per supportare specifiche interpretazioni. Ad esempio, la presenza di canzoni mariane attribuite a Guillaume le Vinier in testa alla raccolta e l’esistenza ad Arras di un’istituzione importante consacrata alla Vergine quale la Carité Nostre Dame non possono essere messe in relazione tra loro se mancano indizi significativi che lo consentano (bisognerebbe cioè poter almeno ipotizzare il legame tra lo ChR e la Carité). In questo senso, l’allusione che si trova a p. 113 – la presenza delle prime «richiam[erebbe]» la seconda – è depotenziata dal ragionevole riconoscimento (pp. 122 e 165, laddove lo stesso argomento è ripreso per ricondurre ad Arras anche le strofe latine di argomento mariano inserite fra le aggiunte) che il culto mariano è diffusissimo in Francia nel Duecento.

Parte II: le aggiunte e il loro significato

21La parte II dell’opera (Musiche da una corte effimera, pp. 129-175), incentrata sulle aggiunte, la loro descrizione, la loro storia e il loro contesto, presenta senza dubbio maggiori motivi di interesse, anche perché dà modo all’autore di sviluppare il discorso di ordine musicologico, piuttosto marginale nella prima parte. Originale è ad esempio, dal punto di vista della storia della musica, l’intuizione del legame – quanto diretto è difficile da stabilire – tra le estampies strumentali dello ChR e le istampite del quattrocentesco codice di Londra (London, BL, Add. 29987), la cui provenienza dalla corte napoletana di Roberto d’Angiò (successore di Carlo II) era già stata individuata dalla critica. Il primo dei due capitoli (Lo Chansonnier du Roi e Napoli), si apre su una diffusa presentazione – utile sintesi di un numero rilevante di studi recenti di storici, filologi e storici dell’arte – della situazione politico-culturale e demografico-linguistica della Napoli dei primi Angioini, tesa a sottolineare il ruolo preponderante se non esclusivo del seguito francese (in particolare artesiano) e, in minor misura, provenzale dei sovrani nella produzione culturale del regno fino al 1309. Si pone l’accento proprio sulle aggiunte qualificabili da una parte come, rispettivamente, artesiane e occitane, dall’altra come “regali” (i pezzi strumentali di cui si è già parlato e i due testi che citano espressamente Carlo d’Angiò) per ribadire la solidità della tesi di Asperti: solo nella Napoli angioina degli ultimi decenni del xiii secolo tutti i componimenti in questione – i cui tempi di copia sono almeno in parte sovrapponibili tra loro per ragioni materiali di cui si dà conto nel capitolo successivo – avrebbero potuto trovare un plausibile contesto di circolazione comune. Per quanto riguarda i testi occitani (p. 137), sprovvisti di patina linguistica oitanica al contrario di quelli trobadorici contenuti nella silloge originaria (canzoniere provenzale W), si afferma cursoriamente la loro dipendenza da «fonti non francesizzate, in alcuni casi probabilmente di tradizione italiana, oltre che provenzale»: se la prima annotazione è del tutto corretta, l’ipotesi di fonti «di tradizione italiana» non va da sé e andrebbe giustificata. Inoltre, pare arbitrario sostenere che «la discrepanza della lingua tra l’occitano oitanizzato delle due sezioni di trovatori e lais e quello delle addizioni indica che *W e le addizioni sono stati copiati in luoghi diversi»: a rigore se ne può ricavare soltanto la diversa provenienza di fonti (come correttamente segnalato a p. 153) e/o copisti. Quest’ultima segnalazione non è tanto significativa di per sé – che il luogo di copia sia differente è per altri versi ben noto, sulla base di tutti gli argomenti addotti – quanto come ulteriore spia di un approccio non del tutto rigoroso agli aspetti di rilevanza filologica che determina talvolta un uso improprio di termini e concetti tecnici (ad es. «booklets autoriali», p. 26, utilizzato in riferimento a sezioni d’autore più o meno corrispondenti con la struttura fascicolare) o, come qui, di una certa disinvoltura nel maneggiare informazioni specifiche. Ciò si traduce, talvolta, anche in contraddizioni interne, come nel caso del rapporto tra dansa e virelai. A proposito delle cinque dansas aggiunte allo ChR, si afferma dapprima a p. 138 che «la dansa-virelai è un genere di chiara derivazione francese, […] l’esempio più tangibile dell’adozione nella tradizione trovadorica di forme francesi» (p. 138), facendo pensare, oltre che all’identità formale tra dansa e virelai, alla pacifica priorità della forma settentrionale su quella meridionale. Dopo poche righe si aggiunge che «a differenza del suo modello [il virelai], la dansa presenta il refrain o respos in posizione iniziale e sintatticamente legato alla fronte, senza le ripetizioni interstrofiche che sono tipiche invece del virelai francese vero e proprio»: la precisazione è discutibile, dal momento che anche il virelai, esattamente come la dansa, si apre con un refrain/respos e che il collegamento sintattico tra questo e la prima parte della strofa non si riscontra di solito in alcuna delle due forme. Si può, anzi, sottolineare che, come segnalato da Peraino, i refrains dei virelais si caratterizzano in genere rispetto a quelli di altre forme liriche (rondeaux su tutti) per la loro coerenza discorsiva e registrale con il resto del componimento e la loro unicità di attestazione50: non sono, cioè, per quanto possiamo saperne, refrains di riuso ma nascono presumibilmente insieme ai virelais che li contengono, proprio come i respos delle dansas51. In merito, poi, alla derivazione della dansa dal virelai) a p. 173 si trova una formulazione assai più possibilista, fondata sul riconoscimento dell’anteriorità delle prime dansas attestate rispetto ai primi virelais: «le dansas […] precorrono il parente francese, o forse ne rilevano [sic] una fortuna più antica di quanto si creda». Ora, considerato innegabile il rapporto tra le due forme, in effetti quasi identiche, l’ipotesi di una precedenza della dansa sul virelai e dunque di un’influenza della prima sul secondo era stata avanzata già a fine Ottocento da Paul Meyer sulla base di una rigorosa considerazione delle testimonianze disponibili52. Tuttavia, nel corso del Novecento l’ipotesi inversa è diventata communis opinio nella critica, soprattutto di parte filologica53, a partire da un generico riconoscimento della preminenza della tradizione francese su quella occitana per quanto concerne le forme a refrain e musico-coreutiche in generale54.

22Quanto alle aggiunte francesi, se per un certo numero di componimenti, come quelli di autori notoriamente arrageois come Robert de Castel e Pierrekin de le Coupele, o di copisti la cui scripta presenta tratti grafico-fonetici nettamente settentrionali, la provenienza artesiana può essere considerata certa o quantomeno presumibile, non è detto che si possa estendere tale conclusione a tutte le aggiunte in lingua d’oil. L’argomento legato ai refrains della maggioranza dei motets entés – «il cui testo e/o melodia ricorre prevalentemente in altri mottetti, canzoni, rondeaux o altri testi letterari di provenienza piccarda, […] quando non propriamente artesiani» (p. 140) – è corretto se circoscritto al campo di applicazione, ma non può venire addotto per proporre invece una definizione globale delle aggiunte, come si fa invece a p. 139: «non si tratta di aggiunte genericamente francesi, ma più specificatamente piccarde, quando non marcatamente artesiane». Che, peraltro, gli stessi refrains cui si allude e alcuni degli altri abbiano talvolta una circolazione più ampia rispetto alla sola area piccarda o artesiana – ad esempio nelle balletes del canzoniere lorenese I (Oxford, Bodleian Library, Douce 308)55 – è fatto riconosciuto nel capitolo successivo. Quanto alla provenienza dei rondeaux aggiunti, così si esprime AMH:

Non ho registrato ricorrenze intertestuali per i refrains dei rondeaux. In questo caso l’appartenenza a una tradizione nord-orientale [scil. «piccarda o propriamente/marcatamente artesiana»] si lega al contesto di copia, cioè all’essere trascritto tra brani artesiani dalle medesime mani, o quantomeno alla fortuna locale che il genere del rondeau/rondelet vive a fine Duecento (p. 140).

23L’argomento non soddisfa. Più in generale, è davvero poco comprensibile il tentativo di ricondurre tutto ad Arras, anche forzando i dati disponibili, né se ne vede l’utilità, una volta accertato che una componente artesiana significativa è presente tanto nella parte originaria del canzoniere, quanto nelle aggiunte. Esiste, d’altra parte, almeno un elemento che potrebbe far dubitare dell’effettivo legame delle aggiunte francesi dello ChR con il milieu artesiano degli ultimi decenni del Duecento: il fatto che un pezzo da novanta della scena di Arras quale Adam de la Halle non compaia né come autore né come sicuro modello (l’unico refrain presente in una delle aggiunte che si ritrova anche in un suo rondeau potrebbe essere stato oggetto di un riuso poligenetico). La questione è tanto più rilevante se si considera che la presenza di Adam de la Halle a Napoli al seguito di Roberto, conte d’Artois e fratello di re Carlo, negli anni ’80 del secolo è considerata dalla critica poco meno che certa – ma è senz’altro condivisibile la prudenza di AMH in tal senso56 – sulla base principalmente della testimonianza del Jeu du Pelerin. Per dare conto di tale silenzio della fonte, non sono sicuro ci si possa basare (come si fa a p. 144) su quanto scrivevo in un articolo di qualche anno fa sulla tradizione, circoscritta e marginale rispetto alle principali sillogi liriche, delle canzoni di Adam57: ai responsabili delle aggiunte non interessavano infatti le canzoni, ma altri pezzi più alla moda (rondeaux e mottetti in primis), che pure Adam compose e la cui tradizione manoscritta è almeno in parte distinta da quella delle sue chansons. Per di più, la condizione di adespotia di tutte le aggiunte potrebbe anche impedirci di considerare adamiane composizioni che in realtà lo sono. In definitiva, come spesso capita nello studio delle tradizioni manoscritte medievali, bisognerà accontentarsi di prendere atto dei dati disponibili, accettando che non sia possibile in questo caso proporne un’interpretazione significativa58.

24Per concludere su questo capitolo, si sarebbe forse potuta offrire al lettore qualche delucidazione in merito alla tipologia del motet enté, cui è riconducibile più di un terzo delle aggiunte in francese. Si tratta infatti di un tipo di composizione del tutto ignorato dalla filologia e della critica italiana in generale, che ha invece suscitato un certo dibattito tra i musicologi anglosassoni (Mark Everist, Judith Peraino e Ardis Butterfield hanno espresso le posizioni più interessanti, tra gli anni ’80 del secolo scorso e i primi anni 2000)59, divisi quanto alla sua definizione come di un genere autonomo e all’eventuale rapporto con la polifonia. In questo senso, l’informazione che viene fornita da AMH, nel capitolo seguente, che si tratta cioè di «brani originariamente polifonici» (p. 173, evidentemente a partire dall’effettiva esistenza di voci siffatte in testimoni di polifonia, quali il ms. Montpellier, Bibliothèque Interuniversitaire, Section Médecine, H 196) vede la critica tutt’altro che concorde. In effetti, nel solo testimone che dedica espressamente una sezione ai motets entés, il canzoniere N, questi (15 esemplari) presentano forma monostrofica, o per meglio dire continua, tendenzialmente sprovvista di un evidente pattern metrico, rimico e melodico, assimilabili in questo a una voce di mottetto polifonico, ma accompagnati da una sola voce melodica. Se ciò spiega l’utilizzo del termine motet, l’aggettivo enté, ‘innestato’, pare rimandare a un’altra caratteristica peculiare di tale forma: quella di presentarsi nel suo complesso come la farcitura di un refrain il cui primo e ultimo verso aprono e chiudono rispettivamente la composizione60. Sulla base di questo criterio, almeno 8 delle aggiunte dello ChR si possono senz’altro definire motets entés. AMH considera tali VI, VIII, IX, X, XIV, XLII, XLIII. Anche V dovrebbe, a mio avviso, entrare nel novero: il componimento è acefalo nel ms. e l’ultimo v. corrisponde al secondo e ultimo v. di un refrain noto: Cuers qui dort il n’ainme nient / Ja n’i dormira li miens (VdB 385). Dubbio, invece, il caso di IV: il componimento è mutilo e il primo v. non corrisponde a quello di alcun refrain noto. AMH suggerisce che possa trattarsi di un refrain-motet, ossia, secondo la terminologia di Gennrich, di una voce di mottetto che termina con un refrain. Tuttavia, ciò pare meno probabile, dal momento che nessuno dei componimenti tràditi nella loro completezza tra le aggiunte presenta tale struttura, salvo l’aggiunta VII, che è però forse più opportunamente repertoriabile come prima strofa di una pastorella a refrain61.

25Una Tavola delle addizioni (pp. 146-151) introduce il capitolo successivo (Le addizioni angioine), dedicato a una disamina delle aggiunte, opportunamente riunite in quattro gruppi omogenei al loro interno per aspetti diversi. Il principale trait d’union del primo gruppo, «un corpus provenzale e danze sparse», è linguistico. Esso raduna, infatti, tutte le aggiunte in lingua d’oc, seppure distinguibili in due sottogruppi per genere, consistenza e tipologia di registrazione nel codice: da una parte 3 descortz e una dansa ricopiati nella loro interezza da un copista calligrafico che cerca di attenersi alla mise en page della silloge originaria, dall’altra 4 dansas monostrofiche e una singola cobla di canzone inseriti, apparentemente più tardi, da diverse mani dal tratto meno formale. Se è condivisibile la considerazione che il primo sottogruppo rispecchi un intento programmatico e una committenza altolocata (si ricordi che la dansa BdT 244.1a menziona ·l reys Karles nella tornada), appare invece meno fondato il tentativo di distinguere nettamente il primo sottogruppo dal secondo in termini di gerarchia e prestigio delle stesse forme impiegate, il descort e la dansa, giudicati sulla base della testimonianza tardiva delle Leys d’Amors, che pongono il primo, ma non la seconda, allo stesso aulico livello della canso. Innanzitutto, sia il descort che la dansa si rivolgono, per quanto ne sappiamo, allo stesso pubblico di corte. Inoltre, le etichette contrastive «impegnato» (per il descort) e «disimpegnato» (per la dansa) non paiono attagliarsi a generi che trattano esclusivamente d’amore, servendosi peraltro del medesimo registro cortese. Nemmeno la tendenziale divergenza tematica e tonale tra i due generi (disforico il descort, euforica la dansa) può essere invocata come criterio di distinzione, dal momento che proprio tra le aggiunte dello ChR si trovano esempi rarissimi di acort (cioè descort euforico) e di desdansa (cioè di dansa disforica), che costringono AMH a supporre «un sofisticato gioco di contraddizioni tra generi, forme e contenuto» (p. 159). Last but not least, la compresenza dei due generi tra le aggiunte dovrà essere ritenuta tutt’altro che accidentale, se è vero – come nota Asperti – che la loro menzione congiunta ricorre presso i trovatori stessi, per i quali «la dansa è associata al descort […] come genere speciale, individuato musicalmente e presente innanzitutto nel repertorio di giullari, ossia di musicisti di professione»62: «e·n Perdigos viule descortz o dansas» (‘Messer Perdigon suoni con la viella descortz o dansas’), esorta ad esempio Raimbaut de Vaqueiras nella tornada del tornejamen scambiato con lo stesso Perdigon e Ademaro II di Poitiers63. In generale, si può essere d’accordo con Peraino che rileva «no apparent regard to segregating categories of “high” or “low” style», da parte dei responsabili delle aggiunte e – ipso facto – dell’ambiente in cui queste circolavano64.

26Interessanti spunti vengono invece dallo studio delle melodie, in particolare per corroborare l’ipotesi, avanzata da una parte della critica soprattutto su base testuale65, che le due coblas e la tornada che concludono senza soluzione di continuità il descort BdT 10.45 (e che non compaiono negli altri testimoni) costituiscano in effetti un componimento autonomo, che riprende la struttura metrica concepita da Aimeric de Peguilhan (il descort è isostrofico), ma applicandovi una melodia ben diversa. Quel che è certo è che il gruppo di aggiunte occitane si caratterizza nel suo insieme per un interesse spiccato nei confronti di generi marginali nella tradizione trobadorica e nei confronti della componente musicale rispetto a quella testuale, come conferma il fatto, ricordato a p. 159, che «tutti i generi strofici vengono trascritti soltanto negli elementi minimi a trasmetterne la melodia intera» (salvo BdT 244.1a, dove la conservazione dell’intero testo si deve evidentemente alla citata menzione di re Carlo nella tornada). Tale conclusione si può ragionevolmente applicare alle aggiunte nel loro complesso, le quali conoscono una «prevalenza di generi “coreutico-musicali”» (p. 174) e – laddove esiste la possibilità di confrontarle con altre testimonianze – «presentano sempre delle intonazioni del tutto nuove, spesso composte su versioni dei testi con non pochi errori o lacune» (p. 157).

27Il secondo gruppo («i lais di re Carlo ?») è limitato a due pezzi trascritti da una medesima mano calligrafica (A2 non lontana per stile paleografico, mise en page e forse momento di copia da quella, A1, dei descort) identificabili come lais e descritti come «esperimenti formali in direzione eterostrofica». A proposito del loro sperimentalismo, è interessante l’ipotesi, ripresa da Theodor Karp, che la seconda delle due composizioni (RS. 165a) rappresenti più o meno esattamente l’esemplificazione dei modi ritmici sistematizzati in anni di poco precedenti dai teorici della musica Francone o Lamberto. Se rimane aperta la possibilità di leggere la composizione dal punto di vista musicale come un mero esercizio didattico o, piuttosto, un raffinato gioco formale, manca invece una disamina della componente testuale che potrebbe permettere di supportare l’una o l’altra interpretazione (che l’autore non pare considerare come realmente alternative: si veda anche p. 361). Quanto alla specificazione «di re Carlo», il punto di domanda che l’accompagna denota una prudenza persino eccessiva. L’ipotesi dei Beck di attribuire la composizione dei due testi a Carlo d’Angiò è del tutto abusiva: infatti, proprio la citazione nell’envoi di RS. 165a del Prinches de Terre de Labour non può essere intesa come una firma, ma semmai – AMH lo ricorda in più punti dell’opera – «come segno della committenza del sovrano» (p. 161).

28Il terzo gruppo di aggiunte è definito complessivamente «souvenirs d’Arras», in base all’impostazione già discussa supra. Vi si fanno rientrare non soltanto i restanti componimenti in francese (motets entés, rondeaux, e, in misura minore, canzoni), ma pure le cinque strofe latine, che sarebbe forse opportuno considerare come un componimento eterostrofico unitario, piuttosto che «cinque brani indipendenti» (p. 164) a prescindere dalla presentazione ambigua che ne dà il manoscritto: nel loro complesso, esse costituiscono infatti il contrafactum di un descort di Adam de Givenchi (RS. 205) tradito nella silloge originaria66. È, in questo senso, di grande interesse la constatazione che «almeno una parte dei copisti tardivi cercavano di […] dialogare con il contenuto della parte antica»: talvolta rielaborandone i testi o più spesso le musiche, come nel caso di RS. 1081, già presente in M ma inserita nuovamente con melodia “aggiornata” tra le aggiunte; talaltra mirando ad ampliarla seguendone i principi organizzativi, come per l’inserimento del lai RS. 165a proprio al termine della sezione dei lais di M. Più discutibile, invece, che una stessa canzone di Robert de Castel (RS. 1789) possa essere stata inserita due volte e da due mani diverse (A14 e A15), all’inizio e alla fine della sezione di Robert de le Piere, perché i copisti la attribuivano a quest’ultimo, «quasi omonimo» (p. 163): l’ipotesi non regge soprattutto se, come suppone AMH, il testo era «adespoto già nell’antigrafo utilizzato da A14 e A15». Tra gli elementi paratestuali, è inedita l’attenzione alla presenza di numeri romani a margine degli incipit di alcuni componimenti trascritti da copisti differenti: essa «permette […] di confermare che doveva esserci un legame almeno tra una parte degli scribi francesi» (p. 168). Ancora, viene utilmente segnalato che l’accostamento in alcune pagine delle aggiunte francesi e di quelle occitane in forma monostrofica e l’uso almeno sporadico degli stessi pentagrammi suggerisce di considerare la copia dei due corpora almeno in parte coeva, ciò che naturalmente non stupisce nel contesto napoletano in cui entrambi dovevano circolare negli stessi anni.

29Il quarto gruppo, infine, raduna «le danze strumentali del re di Sicilia». L’attributo royal/real (nelle rubriche sempre nella forma épicène senza -e, contrariamente a come si trova talvolta riportato nel volume), conferito alle 8 estampies più una dansse delle cc. 103-104 ed estendibile forse anche alle due «piccole danze» (indicate solo come danse nel paratesto) di c. 5r, rimanda evidentemente all’ambiente per cui tali pezzi furono composti. AMH istituisce però anche un significativo parallelo con la trattazione che Grocheo propone nell’Ars musice della stantipes come di un genere difficile ed «elevato», senz’altro adatto, dunque, a una corte regale. Se le estampies dello ChR rappresentano la prima attestazione di composizioni solo strumentali, risulta molto opportuna la citazione (p. 171) della razo della più antica estampida nota, la celeberrima Kalenda maya di Raimbaut de Vaqueiras (BdT 392.9), che ne individua il modello proprio in una melodia sine litteris suonata sulla viella da due giullari provenienti dalla Francia settentrionale.

30A fronte dell’interesse dei dati raccolti e della solidità della maggior parte degli argomenti addotti, ciò che in questo capitolo pare contestabile è invece il ricorso ai concetti di «traccia» e di «frammento». Nel primo caso, il riconoscimento nelle aggiunte di tracce «nel senso petrucciano» (p. 14), cioè riconducibili alla ben nota definizione di «traccia» proposta da Armando Petrucci, pare improprio e fuorviante, per quanto temperato da alcuni distinguo (p. 152) che finiscono tuttavia per confondere più che per chiarire. Improprio, perché l’estraneità che caratterizza essenzialmente le tracce rispetto ai contenuti del supporto in cui si depositano contrasta non solo con l’appartenenza di genere che accomuna le aggiunte ai componimenti della silloge originaria, ma anche e soprattutto con la fitta rete di rapporti che lega in diversi casi le une agli altri. Fuorviante, perché rischia di suggerire una lettura dell’operazione di aggiunta nel suo complesso legata più al caso che all’intenzione; una lettura che è smentita dai dati esposti e dalle conclusioni che se ne traggono. Quanto all’affermazione che «buona parte di queste liriche è trasmessa in maniera frammentaria, vale a dire che se ne conserva solo una strofe o che si tratta di brani di per sé monostrofici o di frammenti di brani polifonici» (p. 152), non è evidentemente possibile considerare frammentari «brani di per sé monostrofici» (come ad es. i rondeaux) e occorrerebbe maggiore cautela – come detto supra – nell’identificare i motets entés (il riferimento è implicito ma chiaro) con «frammenti di brani polifonici». Significativo è senz'altro il monostrofismo prevalente tra i brani aggiunti: che sia originario o meno, esso indica, come ribadito in chiusura del capitolo, nel paragrafo dall’icastico titolo From song to (note)book67, «che l’interesse era rivolto in misura maggiore alla musica, per fini prettamente performativi» (p. 173). Fa piacere sottolineare che l’ipotesi di un legame più o meno diretto tra le versioni dei componimenti aggiunti allo ChR e occasionali performance concorda con quanto evidenziato dall’analisi di testo e musica delle 4 dansas monostrofiche condotta da Christelle Chaillou e me68.

Parte III: l’edizione del testo delle aggiunte

31I principi che informano l’edizione delle aggiunte sono esposti dapprima nell’Introduzione, dove viene promessa :

una edizione critica completa, secondo la forma e le particolarità proprie della versione del manoscritto, delle quarantaquattro addizioni […]. Tuttavia, la finalità non è solo quella di fornirne una versione il più utile possibile sia allo/a studioso/a che all’esecutore/trice, tenendo ovviamente conto della difficoltà intrinseca nel coniugare i due diversi approcci ai testi, ma anche e soprattutto di evidenziare le particolarità della loro trasmissione, nel caso delle (poche) addizioni tràdite già da altri testimoni (p. 19).

32Se ne ricava, in primis, un orientamento al manoscritto piuttosto che al testo. La scelta è del tutto condivisibile, considerato che l’edizione si colloca nell’ambito di uno studio complessivo in cui la materialità dell’oggetto-libro ha una rilevanza precipua e vista pure l’unicità della testimonianza, assoluta per alcuni dei componimenti, da intendere invece come singolarità di versione soprattutto melodica (ma talvolta anche testuale) per altri. In merito al testo, l’intenzione di «evidenziare le particolarità» della versione dello ChR nel caso di opere a tradizione pluritestimoniale, si traduce nella registrazione non gerarchizzata in apparato della varia lectio di tutti gli altri manoscritti. Una selezione critica delle varianti delle diverse famiglie o gruppi stemmatici (sulla base delle descrizioni di Schwan e Avalle)69 del tipo di quella proposta da Madeleine Tyssens nell’edizione del canzoniere francese U (Paris, BnF, fr. 20050)70, avrebbe forse potuto meglio valorizzare la lezione dello ChR, consentendo al lettore di situarla agevolmente nel quadro complessivo della tradizione manoscritta. Quanto al pubblico dell’edizione, se è esplicitata la finalità di rivolgersi tanto agli studiosi quanto agli esecutori, non è invece chiarito in quali pratiche ecdotiche si tradurrebbero i due approcci, presentati come naturalmente divergenti; senza contare che sono suscettibili di essere divergenti anche gli interessi degli studiosi del testo e degli studiosi della musica. Non è più esplicito in merito il capitoletto sui Criteri editoriali (pp. 181-184), dedicato in gran parte a descrivere nel dettaglio la presentazione di testo e musica. Per quel che concerne il testo, si menzionano la conservazione della grafia del manoscritto «anche in presenza di forme locali o inconsuete, ma non erronee» (p. 182) e l’altrettanto usuale distinzione secondo le «normalizzazioni convenzionali» di i e j, u e v (la prima delle due non applicata all’occitano ma solo al francese). Nella resa dei motets entés è ragionevole l’opzione tendenzialmente conservativa dell’editore, che, in componimenti il cui schema metrico e rimico non è mai prevedibile, non ortopedizza la misura dei versi, salvo quando la musica suggerisca di farlo. È quanto avviene per l’aggiunta IX, dove al primo v. di sette sillabe viene integrato il pronome monosillabico me sulla base della constatazione che la melodia «prevede otto suoni sillabici» (p. 206); in tal modo, tra l’altro, il testo del refrain coincide con quello delle sue altre attestazioni.

33Per i componimenti a tradizione pluritestimoniale, il criterio editoriale che si trova enunciato, è il «ricorso […] al confronto con altri testimoni, per emendare lezioni palesemente erronee, o intervenire in porzioni di testo e/o melodia dubbie, non sanabili soltanto per congettura» (p. 181). L’intervento «in porzioni di testo e/o melodia dubbie» rischia però di porsi in contraddizione con il principio dell’orientamento al manoscritto precedentemente evocato. In particolare, se è vero che «le differenze tra la versione di Roi e quella della restante tradizione manoscritta non sono semplici varianti, ma riscritture sostanziali, che influiscono strutturalmente tanto sulla melodia, quanto sul testo» (p. 181), non pare legittimo mescolare lezioni provenienti da quelle che dovranno essere considerate come vere e proprie versioni alternative. Inoltre, la vaghezza semantica del termine «dubbio» apre la strada alla correzione ope codicum anche di lezioni che non sono «palesemente erronee» ma semplicemente singulares o addirittura mere varianti formali, come nei casi seguenti, tutti presi, a mero titolo di esempio, dallo stesso componimento, XXXV :

  • v. 7: si (< SIC) corretto in et ;

  • v. 28: si m’en lo et plus m’en dueil corretto in je m’en lo et si m’en dueil;

  • v. 49: ou (preposizione articolata da en + le) corretto in el (ma cfr. XXXVI, 5 dove si conserva u di ChR vs. el della maggior parte della tradizione).

34Nello stesso capitoletto, si menziona poi l’esigenza – che è senz’altro da sottoscrivere – di un’edizione affidabile delle aggiunte nel loro complesso, molte delle quali «sono oggi leggibili solo in trascrizioni di servizio, […] oppure in edizioni generali» quali quelle dedicate da diversi musicologi ai corpora dei rondeaux o dei mottetti, spesso ben poco attendibili e rigorose sotto il profilo testuale. Sfortunatamente, quantomeno da un punto di vista filologico, non si può dire sia affidabile l’edizione proposta da AMH, la cui debolezza principale – come per i musicologi che lo hanno preceduto – è la concentrazione preminente sulla musica, cui fa da contraltare un trattamento non sempre adeguato del testo. Al di là delle singole scelte ecdotiche, va sottolineata l’assenza congiunta, a margine del testo “critico”, di una presentazione pur sintetica dei contenuti (salvo rarissimi casi), di una traduzione (manca anche un glossario) e di un commento ai versi, che rende arduo per il lettore meno che esperto del repertorio lirico e delle lingue medievali orientarsi nei componimenti e comprenderne il significato. In questo senso, non pare quindi che l’edizione dei testi si possa rivolgere ad altri che allo specialista. L’assenza di apparato esegetico impedisce anche in molti casi di apprezzare le ragioni delle scelte editoriali operate, in quanto rimane celata l’interpretazione che l’autore dà dei passaggi meno chiari. Solo l’interpunzione («adeguat[a] all’uso moderno», p. 183) e la divisione delle parole soccorrono in parte, rivelando talvolta dei travisamenti, come nel caso del motet enté XLII, di cui riproduco il testo presentato nel volume a confronto con la mia proposta di edizione, accompagnata da una necessaria traduzione di servizio :

Testo AMH
Jolïetement m’en vois,
car je n’ai boine ochoison
quant chele cui j’ai fait don
de mon cuer sans repentir.
Ma par son tres dous Plaisir
retenu pour son amant
et se felon me disant,
seur, moi a tort envïeus
sont. Se serai je amoureus,
puis k’Amours d’amer mesprent,
de cuer jolïetement.

Testo Saviotti
Jolïetement m’en vois
car j’en ai boine ochoison,
quant chele cui j’ai fait don
de mon cuer sans repentir
m’a par son tres dous plaisir
retenu pour son amant.
Et se felon mesdisant
seur moi a tort envïeus
sont, se serai je amoureus
puis k’Amours d’amer m’esprent
de cuer, jolïetement.

Trad. ‘Gioiosamente me ne vado e ne ho buona ragione, poiché colei a cui ho fatto dono del mio cuore incondizionatamente mi ha con suo dolce diletto accettato come amante. E se anche i vili maldicenti sono a torto invidiosi di me, rimarrò innamorato perché Amore mi infiamma ad amare di cuore, gioiosamente’.

35Anche il motet enté seguente (XLIII) è interessato da alcuni errori di lettura e/o interpretazione e da mancati interventi di correzione o di inserimento di diacritici che privano di senso il testo. Si considerino ad es. :

  • v. 3: ja ne m’en quier mon joir deriva da un fraintendimento della lezione mouuoir del ms. In effetti, la seconda u è solo parzialmente visibile ma la confusione tra n e u (pur paleograficamente comprensibile e non rara altrove nell’edizione) produce qui un testo incongruo e – intendendo joir come infinito verbale, dunque joïr – falsa la rima ;

  • v. 6: parfartement per parfaytement. L’estremità inferiore della y è effettivamente poco leggibile, ma parfartement, se non è un refuso, non dà senso ;

  • v. 9: quo è lapsus del copista, da correggere in que ;

  • v. 12: asses è da intendere assés.

36Per chi, specialista o meno, voglia leggere il testo delle aggiunte dello ChR si lasciano quindi ancora preferire alcune delle edizioni precedenti, benché solo parziali, quali ad esempio quella di Hans Spanke, nell’articolo-recensione della monografia dei Beck71 per alcuni unica oitanici, e quella di Anna Radaelli per le dansas72.

37Tale considerazione e la minuziosa descrizione che precede si giustificano con il fatto che Musiche da una corte effimera diverrà prevedibilmente, anche per la capacità di sintesi e gli utili strumenti di consultazione che mette a disposizione, un punto di riferimento per chi si accosterà d’ora in avanti allo ChR. Per il resto, considerata l’interdisciplinarietà genuina nell’impostazione, ma asimmetrica nella realizzazione e negli esiti, non si può che auspicare che in futuro imprese simili siano prese in carico da équipe in cui si trovino rappresentati adeguatamente i necessari specialismi, diversi e complementari.

Notes

1 Jean Beck, Louise Beck, Le Manuscrit du Roi: fonds francais n° 844 de la Bibliothèque Nationale, 2 voll.,

2 A seconda del corpus d’interesse, il codice è noto agli specialisti come canzoniere francese M (cc. 1r-185r; si distingue, alle cc. 13r e 59r-76v, Mt, un Liederbuch di Thibaut de Champagne inserito in un secondo momento), canzoniere occitano W (cc. 188r-204v), raccolta di mottetti R (205r-211v). Nella sua parte finale, la silloge originaria contiene anche una sezione di lais (212r-214v), di cui sono conservati nella loro interezza due esemplari composti in una lingua mescidata franco-occitana. Per le aggiunte successive alla silloge originaria, si veda infra.

3 Oltre a John D. Haines, The Musicography of the «Manuscrit du Roi», PhD dissertation, University of Toronto, 1998, sono da considerare: Id., «The Transformation of the Manuscrit du Roi», Musica Disciplina, 52, 1998-2002, pp. 5-43; Id., «The Songbook for William of Villehardouin, Prince of the Morea (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Fonds Français 844): A Crucial Case in the History of Vernacular Song Collections», Viewing the Morea: Land and People in the Late Medieval Peloponnese, ed. Sharon E. J. Gerstel, Dumbarton Oaks Research Library and Collection, Washington (DC), 2013, pp. 57-109, e Id., «Aristocratic Patronage and the Cosmopolitan Vernacular Songbook: the Chansonnier du Roi (M-trouv.) and the French Mediterranean», Musical Culture in the World of Adam de la Halle, ed. Jennifer Salzstein, Boston, Brill, 2019, pp. 95-120.

4 Oltre a Judith A. Peraino, New Music, Notions of Genre, and the «Manuscrit du Roi» circa 1300, PhD dissertation, University of California at Berkeley, 1995, si vedano almeno: Ead., «Re-placing Medieval Music», Journal of American Musicological Society, 4/2, 2001, pp. 209-264, e Ead., Giving Voice to Love: Song and Self-Expression from the Troubadours to Guillaume de Machaut, Oxford, Oxford University Press, 2011, in part. capp. 2, 3 e 5.

5 Stefano Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori. Componenti provenzali e angioine nella tradizione manoscritta della lirica trobadorica, Ravenna, Longo, 1995, p. 127.

6 Maria Carla Battelli, «La ricezione della lirica provenzale nei codici M (BN fr. 844) e U (BN fr. 20050): alcune considerazioni», Contactes de langues, de civilisations et intertextualité. IIIe Congrès international de l’Association Internationale d’Études Occitanes (Montpellier, 20-26 septembre 1990), ed. Gérard Gouiran, 3 voll., Montpellier, Université Paul Valéry, 1992, vol. II, pp. 595-606, e Ead., «Le antologie poetiche in antico-francese», Critica del testo, 2/2, 1999, pp. 141-180, in part. pp. 154-156.

7 Dan Octavian Cepraga, «Tradizioni regionali e tassonomie editoriali nei canzonieri antico-francesi», Critica del testo, 7/1, 2004, pp. 391-424, in part. pp. 406-419.

8 Maria Sofia Lannutti, «Sulle raccolte miste della lirica galloromanza», La tradizione della lirica nel Medioevo romanzo. Problemi di filologia formale, ed. Lino Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2011, pp. 153-178, in part. pp. 154-160.

9 Stefano Resconi, «Canoni, gerarchie, luoghi, tradizioni: le strategie compilative del canzoniere M (BNF, fr. 844)», I confini della lirica. Tempi, luoghi, tradizione della poesia romanza, ed. Alessio Decaria e Claudio Lagomarsini, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2017, pp. 167-191.

10 Maria Carla Battelli, «Il codice Parigi, Bibl. Nat. F.fr 844: un canzoniere disordinato?», La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Messina, Università degli studi – Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 Dicembre 1991), ed. Saverio Guida e Fortunata Latella, 2 voll., Messina, Sicania, 1993, vol. I, pp. 273-308.

11 Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori, in part. cap. 6.

12 Donde l’articolo Christelle Chaillou-Amadieu, Federico Saviotti, «Les dansas du Chansonnier du Roi (Paris, BnF, fr. 844): à la recherche de fautes dans un corpus d’unica», Textus&Musica, 1, 2020, 44 pp.

13 Table-ronde interdisciplinaire Le Manuscrit du Roi, Paris, BnF fr. 844 (7-9 février 2018, Institut Français Centre Saint-Louis), organisée par Christelle Chaillou-Amadieu et Federico Saviotti.

14 I primi risultati in questo senso sono stati presentati in occasione dei congressi internazionali di Digital Humanities EADH2021. Interdisciplinary Perspectives on Data, Krasnoyarsk (titolo della relazione, con Jean-Baptiste Camps, Christelle Chaillou-Amadieu e Viola Mariotti: Editing and Attributing Musical Texts: the Chansonnier du Roi and the Maritem Project) e DH2022. Responding to Asia Diversity, Toshi Center Hotel, Tokyo (titolo della relazione, con Jean-Baptiste Camps, Christelle Chaillou-Amadieu e Viola Mariotti: Textual, Metrical and Musical Stylometry of the Trouvères Songs).

15 Francesco Carapezza, «Fautes musicales et fautes textuelles dans les lais lyriques transmis par les chansonniers du Roi (M) et de Noailles (T, Textus&Musica, 1, 2020, 18 pp.

16 Luca Gatti, Christelle Cazaux, «Un descort et une pièce latine à la Vierge: La douce acordance et Iam mundus ornatur dans les chansonniers M et T», Textus&Musica, 4, 2021, 41 pp.

17 Vladimir Agrigoroaei, «Le Manuscrit du Roi, un chansonnier que le prince de Morée Guillaume de Villehardouin n’a sans doute jamais connu», Textus&Musica, 6, 2022, 14 pp.

18 Già ventilata in Haines, The Musicography of the «Manuscrit du Roi», pp. 81-87, tale ipotesi è sviluppata negli interventi successivi (cfr. supra, n. 3), parzialmente rettificata (Carlo d’Angiò avrebbe fatto confezionare il codice come dono per Villehardouin in occasione delle sue terze nozze) in Id., «The Songbook for William of Villehardouin» e sostenuta con ancora maggiore convinzione in Id., «Aristocratic Patronage and the Cosmopolitan Vernacular Songbook».

19 Alexandros Maria Hatzikiriakos, Musiche da una corte effimera: lo Chansonnier du Roi (BnF f. fr. 844) e la Napoli dei primi angioini, Verona, Fiorini, 2020.

20 Id., «Un canzoniere artesiano a più voci: ibridazioni e “contaminazioni” tra lirica e polifonia nello Chansonnier du Roi», Medioevo romanzo, 42/2, 2018, pp. 352-378.

21 Id., Lo Chansonnier du Roi. Luoghi e autori della lirica e della musica europee del Duecento, Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2015. Retaggio delle onnivore letture che caratterizzano la preparazione di una tesi dottorale pare essere anche la ricca Bibliografia del volume (pp. 373-397), in cui è repertoriato un certo numero di titoli a cui nel volume non si fa riferimento.

22 Dubbi in merito erano già stati espressi da Haines, The Musicography of the «Manuscrit du Roi», p. 96, che auspicava in particolare un’analisi linguistica esaustiva. Me ne occupo diffusamente in un articolo di prossima pubblicazione, a cui rimando per i dettagli: Federico Saviotti, «La scripta du Chansonnier du Roi (BnF, fr. 844). Nouvelles données pour l’étude de la genèse du recueil et de ses sources», Carte romanze, 11, 2023 [i.c.s.].

23 Haines, The Transformations of the Manuscrit du Roi, p. 18.

24 Cfr. in tal senso Peraino, New Music, Notions of Genre, p. 82.

25 Ead., Giving Voice to Love, p. 164, dove si suppone, poco verosimilmente, che tale scriba meridionale sia attivo in uno scriptorium artesiano. Per altre mani potenzialmente italiane si vedano anche Ead., New Music, Notions of Genre, pp. 126-127, e Haines, The Musicography of the «Manuscrit du Roi», p. 165.

26 Ibid., p. 117.

27 Cfr. ad es. Peraino, New Music, Notions of Genre, p. 96.

28 Gli incipit non sono dati «secondo la grafia del manoscritto» come affermato (p. 40), ma in trascrizione interpretativa, con tacito scioglimento delle abbreviazioni e inserimento di interpunzione e diacritici.

29 G. Raynauds Bibliographie des altfranzosischen Liedes, ed. Hans Spanke, Leiden, Brill, 1955.

30 Robert W. Linker, A Bibliography of Old French Lyrics, University (MS), 1979.

31 Nico H. J. van den Boogaard, Rondeaux et refrains du xiie siècle au début du xive, Paris, Klincksieck, 1969.

32 Friedrich Ludwig, Repertorium organorum recentioris et motetorum vetustissimi stili, Halle, Niemeyer, 1910 e ed. Friedrich Gennrich, 2 voll., Langen bei Frankfurt, 1961-1962.

33 Un’altra tabella (pp. 106-108), che «riprende e completa» quella redatta da Battelli, segnala le discrepanze nell’ordinamento e nella consistenza tra la tavola antica del codice (Mi, cc. A-E) e la raccolta effettiva. Sarebbe forse stato utile accogliere anche questi dati nella tavola generale.

34 Max Prinet, «L’illustration héraldique du Chansonnier du Roi», Mélanges de linguistique et de littérature offerts à M. Alfred Jeanroy, Paris, Droz, 1928, pp. 521-537.

35 Cfr. Saviotti, «La scripta du Chansonnier du Roi». Le prime risultanze di tale studio erano state presentate alla Tavola rotonda internazionale del febbraio 2018 presso l’Institut français de Rome.

36 Gautier de Dargies, Poesie, ed. Anna Maria Raugei, 1981, pp. 13-22.

37 Cfr. Eduard Schwan, Die altfranzösischen Liederhandschriften, ihr Verhältniss, ihre Entstehung und ihre Bestimmung. Eine litterarhistorische Untersuchung, Berlin, Weidmann, 1886.

38 Mi riferisco, in particolare, a K (Paris, BnF, Arsenal 5198), N (Paris, BnF fr. 845), P (Paris, BnF, fr. 847) e X (Paris, BnF, fr. 1050), su cui si vedano Eine Altfranzösische Liedersammlung. Der anonyme Teil der Liederhandschriften K N P X, ed. Hans Spanke, Halle (Saale), Niemeyer, 1925, pp. 263-284, e Cepraga, Tradizioni regionali e tassonomie editoriali, pp. 393-406.

39 Cfr. Charles-Théodore Gossen, Grammaire de l’ancien picard, Paris, Klincksieck, 1970, § 11, pp. 59-61.

40 Per l’ampiezza referenziale non soltanto in senso geolinguistico di «Piccardia» e «piccardo» nel basso Medioevo, si veda ad es. Jakob Wüest, «Französische Skriptaformen II. Pikardie, Hennegau, Artois, Flandern», Lexikon der Romanistischen Linguistik, ed. Günter Holtus et al., Band II/2. Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, Tübingen, Niemeyer, 1995, pp. 300-314, in part. pp. 300-301.

41 Cfr. Gossen, Grammaire de l’ancien picard, § 41 e 38, pp. 91-94.

42 Ibid., § 63.

43 Come azzardato en passant da Peraino, New Musics, Notions of Genre, p. 122, n. 22 («this detail perhaps points to a difference in dialect between the two scribes»), pure in genere non proclive all’analisi linguistica, ed esplicitato da Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori, p. 124, che parla per l’aggettivo real di «forte provenzalismo».

44 Cfr. pure Peraino, New Musics, Notions of Genre, pp. 94-95, 119 e 121-122.

45 Cfr. Gaston Zink, Phonétique historique du français, Paris, Presses Universitaires de France, 1986, p. 161.

46 Contrariamente a quanto sembra sostenere l’autore, che pure cita Maria Carla Battelli, «Le chansons couronnées nell’antica lirica francese», Critica del testo, 2/2, 1999, pp. 565-617.

47 L’uso per distinguere i testimoni lirici delle sigle precedute da ° o *, a seconda che si tratti della tradizione trovierica o di quella trobadorica, è un utile accorgimento desunto da Davide Daolmi (cfr. p. 369).

48 Ed. Roger Berger, Le Nécrologe de la Confrérie des bourgeois et des jongleurs d’Arras (1194-1361). Vol. I. Texte et table, Arras, Imprimerie Centrale de l’Artois, 1963, p. 39.

49 Per le scarse notizie relative alla biografia di Guillaume le Vinier e alla sua famiglia, cfr. Les Poésies de Guillaume le Vinier, ed. Philippe Ménard, Genève-Paris, Droz, 1970, pp. 1-2.

50 Peraino, Giving Voice to Love, cap. 5.

51 Sulle differenze genetiche e funzionali tra refrain e respos, cfr. Christelle Chaillou-Amadieu, Federico Saviotti, «Dansa es us dictatz gracios. La dansa occitane du xiie et au xive siècle», Cahiers de civilisation médiévale, 65, 2022, pp. 3-36, in part. pp. 24-31.

52 Paul Meyer, «Des rapports de la poésie des trouvères avec celle des troubadours», Romania, 19, 1890, pp. 1-62, in part. pp. 21-26.

53 In anni più recenti, Peraino, Giving Voice to Love, cap. 5 giunge alle stessa conclusione di Meyer, pur ignorandone il contributo.

54 Su tutta la questione si vedano Chaillou-Amadieu, Saviotti, «Dansa es us dictatz gracios», pp. 4-5, e soprattutto Christelle Chaillou, Federico Saviotti, «Chançons baladees que l’en appelle virelais. Étude sur l’origine et le développement de la forme virelai» [in preparazione].

55 Come segnala Ardis Butterfield, Poetry and Music in Medieval France. From Jean Renart to Guillaume de Machaut, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 137-142 (citata, per quanto in maniera parziale a p. 166, n. 29).

56 Con altrettanta cautela dovrebbero essere trattate le notizie desunte da Francesco Sabatini, Napoli angioina: cultura e società, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1975 in merito alla presenza a Napoli di altri trovieri artesiani: sull’identificazione, data come sicura, di un Novellone de Atrapato, ystrio et familiaris di Carlo II secondo il Registro Angioino (ibid., pp. 38 e 231, n. 87) con il «Nevelot Amion, poeta nativo di Arras e autore di un Dit [o per meglio dire dei Vers] d’Amour» (Hatzikiriakos, Musiche da una corte effimera, p. 133) mi permetto di rimandare agli argomenti contra raccolti in Les Vers d’Amours d’Arras. Adam de la Halle et Nevelot Amion, ed. Federico Saviotti, Paris, Champion, 2018, pp. 33-34.

57 Federico Saviotti, «Anomalie codicologiche e bibliografiche: le canzoni di Adam de la Halle e la loro singolare tradizione manoscritta», Critica del testo, 18/2, 2015, pp. 225-257.

58 Ma secondo Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori, sulla base della presenza nella produzione di Adam de la Halle di alcuni proto-virelais che richiamerebbero le dansas dello ChR, è «probabilmente in Adam stesso o in qualcuno che gli fu molto vicino che andrà ricercato il tramite concreto che permise il contatto fra ambienti in apparenza tanto distanti come quello di Napoli e quelli della Francia settentrionale» (p. 132). Per la forma e l'interpretazione di tali proto-virelais, cfr. Chaillou, Saviotti, «Chançons baladées que l’en appelle virelais».

59 Cfr., in ordine cronologico: Mark Everist, French Motets in the Thirteenth Century: Music, Poetry and Genre, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, cap. 4; Peraino, New Musics, Notions of Genre, cap. VI; Ardis Butterfield, «Enté: a Survey and Re-Assessment of the Term in Thirteenth and Fourteenth Century Music and Poetry», Early Music History, 22, 2003, pp. 67-101; Peraino, Giving Voice to Love, cap. 4.

60 Pur in assenza di indicazioni paratestuali utili a identificarli, componimenti che condividono quasi del tutto i tratti del piccolo corpus di N si trovano in altri testimoni, coevi o un po’ più tardi, come il canzoniere I (Oxford, Bodleian Library, Douce 308), privo però di notazione musicale. Si tratta, nel complesso, di almeno una settantina di specimina (Peraino, ibid., pp. 190-191, ne repertoria 45, tenendo conto soltanto di quelli notati) che merita senz’altro di essere studiata nel dettaglio anche sotto il profilo testuale ed edita criticamente. Mi riprometto di tornare sull’argomento in futuro.

61 Stefano Asperti, a quanto pare il solo filologo che se ne sia fin qui occupato, definisce complessivamente questi 10 componimenti come «motets à refrain» (Asperti, Carlo I d’Angiò e i trovatori, p. 123).

62 Ibid., pp. 104 e 124.

63 BdT 4.1 = 370.12a = 392.15, v. 50; ed. Giuseppe Cusimano, «Raimbaut larga pansa», Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 6-8, 1962 [Saggi e ricerche in memoria di Ettore Li Gotti], pp. 427-444.

64 Peraino, New Music, Notions of Genre, p. 303.

65 Cfr. ad es. Elisa Guadagnini, «Un descort provenzale del secondo quarto del Duecento», Scène, évolution, sort de la langue et de la littérature d’oc. Actes du VIIe Congrès international de l’Association Internationale d’Études Occitanes (Reggio Calabria-Messina, 7-13 juillet 2002), ed. Rossana Castano et al., 2 voll., Roma, Viella, 2003, pp. 395-405.

66 Sul rapporto tra i due testi si veda ora Gatti, Cazaux, «Un descort et une pièce latine à la Vierge».

67 Ripreso dalla fortunata monografia di Sylvia Huot, From Song to Book: the Poetics of Writing in Old French Lyric and Lyrical Narrative Poetry, Ithaca (NY)-London, Cornell University Press, 1987.

68 Cfr. Chaillou-Amadieu, Saviotti, «Les dansas du Chansonnier du Roi», §§ 26, 35 e 50.

69 Si fa riferimento a Schwan, Die altfranzösischen Liederhandschriften, e d’Arco Silvio Avalle, I manuscritti della letteratura in lingua d’oc, ed. Lino Leonardi, Torino, Einaudi, 19932 (1a ediz.: La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, 1961).

70 Le Chansonnier français U publié d’après le manuscrit Paris, BNF, fr. 20050, ed. Madeleine Tyssens, 2 voll., Paris-Abbeville, Société des Anciens Textes Français-Paillart, 2015-2020.

71 Hans Spanke, «Der Chansonnier du Roi», Romanische Forschungen, 57, 1943, pp. 38-104, in part. pp. 93 e 99-100. Pur presente nella Bibliografia finale, non è citato nella parte III del volume.

72 Dansas provenzali del xiii secolo: appunti sul genere ed edizione critica, ed. Anna Radaelli, Firenze, Alinea, 2004.

Pour citer ce document

Par Federico Saviotti, «Un canzoniere straordinario ?
Appunti a margine di un libro recente sullo Chansonnier du Roi (con l’edizione delle sue «aggiunte»)», Textus & Musica [En ligne], Les numéros, 6 | 2022 - Varia, Notes, mis à jour le : 29/10/2024, URL : https://textus-et-musica.edel.univ-poitiers.fr:443/textus-et-musica/index.php?id=2628.

Quelques mots à propos de :  Federico Saviotti

Federico Saviotti è ricercatore e insegna la filologia e la linguistica romanze presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Doctor europæus in Filologia romanza all’Università di Siena (2008), è stato per un triennio chercheur associé alla cattedra di «Littératures de la France médiévale» del Collège de France.

Specialista della lirica dei trovatori (Raimbaut e gli altri. Percorsi di identificazione nella lirica romanza del Medioevo, Pavia, Pavia University Press, 2017),

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